Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
È un po' che non sappiamo nulla del nostro piccolo Sognatore dalla testa grande e morbida e dalle gambe corte (se non avete mai sentito parlare di lui vi suggerisco di leggere i racconti precedenti, a partire appunto da il Sognatore).
L'abbiamo lasciato che lavorava presso un luna-park di periferia, senza prospettive e senza futuro... tuttavia, ogni sera, nella sua piccola stanzetta, prendeva carta e penna e scriveva della vita che non conosceva.
Un giorno però il nostro piccolo Sognatore ha cominciato a far carriera. Non come scrittore. Ovviamente.
Un giorno, il capo del Luna park, il pezzo grosso, il boss, gli è venuto incontro mentre stava (come tutte le mattine) lucidando con la cera la giostra dei cavalli e gli ha detto precisamente le seguenti parole: “Vieni nel mio ufficio, dopo” ...
“Una promozione!”
…ha pensato subito il nostro morbido Sognatore: “Con tutto il sedere che mi faccio!”.
Finalmente una soddisfazione, finalmente gli sarebbero stati riconosciuti i suoi meriti! Finalmente un traguardo! Finalmente un...
“Da oggi non pulisci più̀ la giostra. Vendi i biglietti. Per la giostra”.
Il nostro morbido Sognatore lo ha guardato senza dire nulla. Una piccola ruga gli ha increspato la fronte, sulla grossa testa; le gambette corte si sono irrigidite così tanto e così improvvisamente che una delle due ha cominciato a tremare, violentemente. Poi, con i pugnetti chiusi, stretti-stretti sui palmi cicciotti, si è costretto a girare le chiappe e a tornare al lavoro. Ma solo perché, come ben sapete, il nostro Sognatore, dopotutto, in fondo, è un vero signore.
“Prima o poi me ne vado, prima o poi me ne vado.... Più̀ prima che poi!” ha pensato digrignando i denti tutto arrabbiato e deluso.
Quel giorno ha messo via scopa e straccio e ha preso in mano un blocchettino di biglietti, si è seduto alla cassa accanto alla giostra e ha cominciato ad aspettare.
Da quel momento di persone ne ha incontrate tante: alte, magre, basse, pagnottelle, anziane, leggere, colorate, grigie, spente, allegre, tristi, forti; coraggiose e svagate; simpatiche e antipatiche, felici o meno, strane e più̀ strane. Stamattina, per esempio, è arrivato un signore che voleva evidentemente fregarlo. Il biglietto per la giostra costa cinque soldi e lui voleva pagarlo con un pesce! Sì, sì, un vero pesce. Ha messo sul banco un secchio che aveva in mano e ha tirato fuori una specie di gigantesco branzino. E sapete che ha fatto il nostro Sognatore? Ha messo lui i cinque soldi del biglietto al posto del signore, glielo ha consegnato e s’è preso il branzino!
Non ne ha mai visto uno così grosso, né tantomeno ha mai mangiato un branzino (il luna-park è tanto lontano dal mare e lui non può̀ permettersi di andare a mangiare pesce; non poteva manco permettersi quei cinque soldi a dirla tutta, ma pazienza).
Così, adesso che è ora di cena, il nostro morbido Sognatore sta fuori dalla sua baracchetta e sta cercando di cucinare il branzino con un piccolo falò̀ improvvisato. E' sera e c’è silenzio nel luna-park, la giornata è finita, e l’odorino del pesce che cuoce arriva alle sue narici sempre più̀ prelibato finché...
In un altro momento, in un mondo simile al nostro, in un’altra stagione,
c’era una volta un pescatore.
C’era una volta e poi non ci fu mai più̀, in una città che assomiglia a Roma ma non lo è. Non proprio nel centro ma più̀ in periferia. Quella però dove c’è il mare...ma non il mare bello, non quello che piace a tutti quando fa caldo, non il mare che sa di sale, con l’acqua trasparente che pare un ghiacciolo...non il mare con la sabbia bianca e gli scogli da ricconi.
Il mare dei poveracci con la lenza e un amo per campare; il mare grigio, quello che non t’invoglia mai, eppure devi uscire: di notte, con la barchetta, a fare una strage, ad addormentarti sul ciglio della morte; il mare degli uomini soli e delle donne che aspettano a casa a fare la maglia...e no, non è un insulto, il nostro Sognatore non è certo un maschilista, scrive “a fare la maglia” perché́ sono preoccupate, perché́...che possono fare se non aspettare?
Insomma, c’era una volta un pescatore: abitava sulla riva d’un mare per niente dolce, in periferia; lavorava di notte e di giorno dormiva, eppure gli piaceva... campava e mangiava, amava e sperava:
“Un giorno...chissà̀, ‘na barchetta più̀ grande...” (parlava con un accento che sembrava Romano ma di certo non lo era affatto).
E poi quel giorno non arrivò mai.
Una mattina sentì un gran frastuono fuori dal baracchino che chiamava casa: Stump, patapum ptum cha, stup bara bum, ta, tà:
“Aò!!” Urlò di getto uscendo dalla porta “Che state a fa’?!!”
Due uomini col cappello da coglioni e le facce da cappello stavano in sella ad un mostro di macchina...si guardarono e continuarono: bum bara-bum bum cha!
“Aò, v’ho chiesto che state a fa!”
“Il lavoro nostro!” Dissero quelli tutti seri.
“E che lavoro è?”
“Un lavoro che crea altro lavoro”
“E che vor dì?”
“Che se c’hai i sordi ti possiamo dare un lettino e 'na sdraio pe un mese, e se non c’hai i sordi puoi fare quello che apre i lettini e le sdraio pe un mese a uno che c’ha i sordi”
“Nun me interessa, io ce l’ho già̀ un lavoro, io pesco pesci!”
“Non qui, qui da oggi c’è il divieto”
E poi l’uomo con la faccia da cappello e il cappello da coglione piantò un bel cartello sulla riva:
“RISERVA NATURALE”.
“Ma riserva de che, ce stanno li scarichi del porto! Ma riserva de che, a malapena trovo un tonno un po’ spaurito che s’è perso pe annà da n’altra parte... ma riserva de che, l’acqua è sporca, il mare è mosso! Ma riserva de che, qua vicino hanno aperto no scarico du giorni fa ma de che stamo a parlà?... questa è casa mia, non me la potete porta’ via!”
“E’ lo stato che decide, ora via, fuori dalla proprietà̀!” dissero i due coglioni in tutta serietà̀.
Ebbene sì, c’era una volta un pescatore, e in cinque minuti di storia perse la sua casa e la sua spiaggia per colpa di una riserva naturale e uno stabilimento balneare.
Il pescatore partì.
Era solo, non era sposato, era di mezza età̀, non s’era mai accasato.
Ma era determinato, anche se affranto...dicevano che in città c’era il futuro, allora prese due lenze, una canna, e gli ami più̀ belli:
“I vermi se trovano dappertutto” pensò.
“Te pare che in una grande città che assomiglia a Roma ma non lo è, nun ce stanno i vermi!”
Eeeh! C’è di tutto in città pescatore...
E partì, per Roma (che poi non è veramente Roma).
“Quanto sei bella Roma quanno è sera, quanto sei bella Roma quann’e’ il tramonto...”
Ma insomma! Perché́ d’autunno tramonta intorno alle sei e mezza, e chi è di Roma, o di questa città che c’assomiglia ma non è Roma, lo sa, che le sei e mezzo di ottobre significa due ore di traffico sul raccordo, sulla Salaria, sul lungotevere, sulla Pontina, sulla Nomentana, a Conca d’oro, su viale Regina, sull’Olimpica, pure nel viottolo di due metri per tre della parte pedonale di San Lorenzo dove non possono passare le macchine c’è traffico e anche in tutte le vie che conoscete voi e che non hanno nomi di zone di Roma visto che questa non è Roma.
E infatti il nostro pescatore stette un po’ in fila.
Un po’ tanto.
Una cifra, come dicono i giovani.
Aveva preso l’autobus. Potete solo immaginare.
Al che a un certo punto decise di abbandonarlo.
“Me la faccio a piedi, meglio che morì de caldo e de noia schiacciato tra un americano con la pancia, e n’ gladiatore co la lancia”
Così scese più̀ o meno dov'era salito: “Du metri abbiamo fatto?”
E cominciò a camminare...e cammina, cammina arrivò.
Arrivò di notte, c’era silenzio e grosse case, alte come onde spaventose, e ferme; pure il vento era fermo. Il pescatore non si capacitava:
“Ma che m’hanno detto? M’hanno detto che qua ce stava il futuro, il domani...eppure il vento è morto, e le onde non se movono. ‘Ndo so finito? È ‘na città morta, e so morto pur io se devo restà qua”.
Poi improvvisamente sentì un suono familiare: acqua, acqua che scorre, suono dolce come il miele spalmato sul pane caldo. Allora cominciò a camminare, poi a correre... “Il mare, il mare!” E poi arrivò.
Questo è il Tevere mio caro pescatore, mica il mare. (O almeno, sarebbe il Tevere se fossimo a Roma).
Rimase un attimo interdetto. Pareva un mare piccolo, però l’acqua c’era ed era grigia e zozza, proprio come quella di casa sua. Fece un attimo un sorriso:
“Ma voi vede’ che qua è come er mare mio? “Poi gli venne un dubbio e spaventato pensò:
“Aspetta n’attimo, famme controllà, che s’è zozzo come er mare mio magari è già ‘na riserva naturale!”
Si guardò intorno, niente cartelli...solo uno: “DIVIETO DI BALNEAZIONE”.
Si guardò di nuovo intorno: non c’era anima viva.
Al che scese le scalette e s’avvicinò all’acqua. Scura ma non ferma, che bellezza!
In tutta la città, che pareva morta da una vita, quell’acqua abbandonata e un po’ schifata era l’unica che si muoveva ancora.
C’era una volta un pescatore, che perse il suo mare, poi un giorno incontrò un fiume!
Il nostro protagonista, si sedette sull’argine, armò la canna e lanciò, un lancio lungo: abituato al mare, si fece quasi tutto il fiume per orizzontale.
Poi si sedette e guardò la notte. Non era poi così male questa città, ci stava pure un piccolo mare!
Attese per ore, non abboccò niente, vide un sacco di topi, ragni, animali strani, ma pesci, neanche l’ombra...poi a una certa sentì tirare:
“Ehi, ehi lasciami andare!”
Sentì una voce provenire dall’acqua, fece un salto, mollò la canna, e quella cascò nel fiume, poi s’inginocchiò:
“Chi ce sta!?” Urlò.
Silenzio...poi un guizzo. Un cefalo enorme s’avvicinò a pelo d’acqua, portando la canna nella bocca grigiastra:
“Tienila tu e smettila di pescare, i pesci che stanno qua non li puoi mangiare!”
“C’ho le traveggole” disse il pescatore, “sò stanco e devo annà dal dottore!”
“Ma che traveggole, te sto proprio a parlà, te sto a di’ che nun poi pesca'’”
“Nun ce stanno divieti, ho controllato!”
“Perché nun servono... qua tutti lo sanno, il fiume è sporco, nun ce se pò manco fa il bagno!”
“E perché esiste se nun serve a niente? Ogni cosa c’ha no scopo ner monno, il mare è fatto per pescare mica se po’ solo guardare”
Un triste sorriso increspò la bocca del pesce (o almeno, sembrava un sorriso):
“Prima non era così, ce stavano i regazzetti che se buttavano dai ponti d’estate pe non morì de caldo, e signore a cui piaceva fare il bagno, pescatori educati che facevano amicizia co l’acqua...e ce sporcavamo di meno, ce calcolavano di più̀, ora guardano tutti verso il cielo...che il Tevere è biondo de sera nun se lo ricordano più e noi, noi pesci, siamo sempre di meno.”
“Io vengo dal mare, là pe noi i pesci so tutto, te lo posso assicurare”
“E com’è il mare?” chiese il cefalo;
“Grande” rispose il pescatore.
“Quanto grande?”
“Mille volte, mille volte il fiume tuo”
“E che ce sta?”
“Acqua, acqua e sale”
“E poi?”
“E poi il vento, il vento e le onde.”
“Che so le onde?”
“So quelle che te fanno ribaltare, e t’accompagnano e t’accarezzano quanno ti possono aiutare, le onde sono il mare che s’abbraccia cor vento, so pericolose e sincere, te vogliono bene e poi te fanno morì.”
“Fanno paura.”
“Tutto il mare fa spavento, ma nun è mai fermo, qui invece pare de soffoca’.”
“Non è solo così, il fiume scorre, si muove non smette mai d’annà.”
“E ‘ndo va?”
“Dove hai detto tu. Al mare.” disse il cefalo con una punta di malinconia...
In quel momento il nostro pescatore e il pesce si guardarono intensamente. È bello quando due mondi così opposti s’incontrano: il cefalo sapeva di essere un pesce di città e che il progresso e la civilizzazione sono cose che non si possono fermare, ma la sua natura lo spingeva verso il mare; il pescatore, dal canto suo, sapeva che la sua casa gli mancava ma non sapeva come fare, non aveva più̀ la sua barca per tornare al mare, non aveva un posto dove andare: “in città...” gli avevano detto “...devi ricominciare!”
I due si misero all’opera in fretta, senza parlare, pareva che avessero un’intesa perfetta, tutti e due pronti ad aiutare:
“Qua ce sta ‘na cassa de legno muffita, legna assortita, spaccala e facce la prua.”
“Qua c’è sta ‘n secchiello de plastica facce ‘n sedile.”
“’N asse da stiro e ‘na porta scardinata, vai con la poppa.”
“chiodi arrugginiti, e fil di ferro abbandonato pe strigne tutto”.
E così, dal fiume abbandonato e zozzo, nacque un’imbarcazione, senza vela né motore, ma sempre una signora imbarcazione. Galleggiava ch’era una meraviglia.
Il pesce e il pescatore si guardarono con soddisfazione, era proprio “‘na signora ‘mbarcazione!”
Salito il pescatore e pronto ad andare, il pesce iniziò a nuotare...e così il viaggio incominciò.
Il pescatore navigava piano, il fiume lo portava leggero, accanto a lui il pesce nuotava, e ogni tanto con una musata lo raddrizzava, intanto gli raccontava... che era un pesce fortunato, perché poteva vivere sia in acque dolci che salate, ch’era nato al mare e poi la sua famiglia aveva risalito il fiume e lui s’era dimenticato di tornare, che s’era adagiato a fare una vita cittadina, ma che si svegliava con la noia ogni mattina...Il pescatore gli disse che lui queste cose non le conosceva, conosceva solo il mare, che voleva rivedere albeggiare, che non c’era altro da poter sperare.
Navigavano così per la città che non era Roma ma ci assomigliava, nella notte buia, e il pescatore vide che sembrava tanto bella quella città.
C’erano luci di finestre accese, anche se era tardi, che parevano piccoli occhi; palazzi grandi da ricconi e poi muretti scalcagnati e silenziosi accanto a piccole case vecchie fatte di ricordi. C’erano quartieri fatti di luci colorate e persone agitate e poi silenziosi boschi di macchine parcheggiate e mura scrostate e miracoli di marmo, e statue e ponti che parevano abbracciare l’acqua e riflessi di stelle opache per la troppa luce e mostri d’acciaio abbandonati, discariche a cielo aperto e monumenti che parevano scolpiti nella terra, vie buie e spaventose che terminavano in uno scorcio di meraviglia e terrazzi coi panni appesi e balconi con fiori accesi e serrande chiuse e finestre spalancate, e gatti abbandonati, e cani arrabbiati e piccole chiese resistenti e grandi santuari permanenti.
Vide che l’amore si buttava per le vie nelle mani unite di giovani avvinazzati, e che saliva scalando i tetti negli anfratti più̀ protetti, che dimora diventavano di baci nascosti alla luna, e di promesse rubate ai sanpietrini...
Continuarono piano a viaggiare...finche’, dopo molte ore il mare non li vide arrivare.
Era quasi l’alba, e il cielo era chiaro... così, senza alcuna pietà, il pescatore vide la verità̀. Sulla foce il mondo appariva più̀ crudo, a destra l’idroscalo, a sinistra le case, poi uno stabilimento e cemento, cemento, cemento.
Così cominciò ad urlare:
“Torniamo indietro non voglio guarda’, qua non c’è casa mia, non voglio più̀ tornà.”
Ma il pesce non era d’accordo:
“Dobbiamo continuare!”
“Io non posso, nun vedi? Il mare me vole fermà”.
E in effetti la piccola imbarcazione, che fino a quel momento era andata sicura verso il mare, ora era ferma e non riusciva più̀ ad andare. Le onde la spingevano indietro e la corrente rimasta del fiume alla foce non era forte abbastanza.
“Mi porterà̀ a riva e lì non c’è spazio per pescare, devo tornare”
Il cefalo allora guardò per la prima volta davvero il mare. Aveva fatto bene a sperare di tornare.
Poi deciso gridò al pescatore:
“Prendi in mano la canna e nun te preoccupà.”
Il pescatore:
“Lascia perde! Nun lo fà!”
Il pesce afferrò l’amo con la bocca e con forza cominciò a nuotare verso il mare.
Le onde erano forti ma il cefalo di più̀. Tirò.... E mentre tirava, la barca si muoveva, trainata dalla canna...
Sempre più̀ veloce, veloce, veloce.
Il cefalo tirò e tirò per giorni e giorni, con sempre più̀ dolore; l’amo gli si conficcava nella gola ma lui non demordeva, le onde s’infrangevano sulla piccola imbarcazione ma lui non la smetteva, finché un giorno, ormai sfinito, sentì il pescatore gridare:
“Terra! Terra senza ombrelloni! Terra senza idroscali! Terra!”
Così, con le ultime forze, trascinò la barchetta verso la riva selvaggia.
Il pescatore scese assetato, disseccato, provato...ma non corse a guardare dov’era, non corse a baciare la terra, rimase nell’acqua e prese tra le braccia il cefalo.
“Qua non ce stanno idroscali,
nun ce stanno riserve naturali;
ce sta solo il mare e il vento che te porta via,
d’ora in avanti sarà̀ questa casa mia”.
Poi con un sorriso amaro, strinse il cefalo tra le braccia e sussurrò:
“Hai fatto ‘na mattata pe famme arrivà qui”
Ma ormai era troppo tardi, il cefalo morì.
Il Sognatore ancora una volta lascia la penna su una triste fine. Forse il pesce era destinato a morire fino dall’inizio, o forse l’ha fatto morire perché́ lui, il suo branzino, se lo sta mangiando proprio adesso e di certo non è vivo. Fatto sta che, ancora una volta, una perdita è causa di una gioia. Un sacrificio porta ad un lieto (non per tutti) fine. Il branzino non è certo felice di essere morto ma lui è sicuramente felice d’assaggiare un branzino.
Triste storia la vita.
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