Editoriale

Pansa, i romanzi della storia cancellata e i suoi detrattori (distratti)

A proposito della polemica fra Aldo Grasso e Tommaso Montanari

Simonetta  Bartolini

di Simonetta  Bartolini

a sciatteria ermeneutica che contraddistingue il milieu culturale italiano, per quanto nota, desta sempre un po’ di sconcerto, soprattutto quanto si manifesta con l’intolleranza intransigente di cui è stato fatto segno Giampaolo Pansa. Non apparteniamo alla schiera di coloro che ritengono la morte assolutrice a prescindere, e di conseguenza neppure a quella del laudatores ex post ad ogni costo perché ad un defunto si perdona tutto. Ciò detto, quando si tratta di ricordare l’opera di uno scrittore appena scomparso sarebbe opportuno che la valutazione del merito del sua opera fosse scevra dal facile risentimento di natura ideologica.

Pansa è stato un giornalista di indubbio valore, capace di una lettura dei fatti (soprattutto politici) acuta e mai banale per quanto non alieno da una non trascurabile carica ideologica che poteva spiacere a chi la pensava diversamente da lui, e di conseguenza piacere molto a chi condivideva le sue posizioni. Era però difficile imputargli il vizio di tanta intellighentia (soprattutto di sinistra) di ritenere di essere in possesso della verità assoluta, di detenere una rivelazione indiscutibile. Da buon giornalista proponeva ai suoi lettori la sua interpretazione dei fatti dopo averne accertata l’esistenza (sembra banale, ma non lo è come purtroppo ci dimostra la cronaca quotidiana fatta di opinioni su supposizioni di fatti) stava a chi leggeva i suoi pezzi o i suoi libri condividere o meno, ma la condivisione riguardava le sue opinioni non i fatti che come tali stanno lì duri e puri, possono piacere o no, ma si tratta di fatti. 

Poiché la sua natura, ancorché di parte (quella sinistra), era essenzialmente onesta e aliena dall’organicità indefettibile di tipo gramsciano, Pansa aveva rifiutato di rinchiudersi nel recinto ideologico nel quale si era formato accettandone il dogma assoluto. E di quel recinto (fatto di alte mura) aveva spalancato la porta per guardare quel che c’era fuori, e fuori aveva trovato fatti che in quell’area fortificata non avevano spazio. Da giornalista curioso era andato a vedere di cosa si trattasse e lo aveva raccontato ai suoi lettori fino dagli anni 2000 in una serie di libri destinati a suscitare aspre polemiche.

Si trattata di una scelta dettata da quell’insopprimibile desiderio etico che la maturità e poi la vecchia rendono necessari quando l’individuo sia un uomo libero, questo non aveva significato che Pansa rinnegasse ciò in cui aveva creduto fino da giovane, ma piuttosto lo aveva indotto a realizzare che una medaglia ha sempre due facce, e la verità due interpretazioni che possono e forse devono coesistere, di conseguenza la storia non poteva essere solo quella raccontata dai vincitori, ma arriva il momento (certo a distanza di tempo quanto gli animi si sono placati e le emozioni rientrate nella razionalità) in cui è giusto raccontare anche quella dei vinti.

Erano così nati i suoi libri “revisionisti”, dai Figli dell’aquila (2002) al Sangue dei Vinti (2003) e poi I gendarmi della memoria (2007), I vinti non dimenticano (2010) (solo per citarne alcuni) che avevano provocato un acceso dibattito fra i partigiani della storia cristallizzata nella lezione dettata dai vincitori all’indomani dei fatti, e i sostenitori della necessità di una storiografia dinamica che accoglie, rappresenta e analizza tutto quanto in un primo momento era stato censurato, dimenticato, nascosto (talvolta anche per motivi legittimi e comprensibili), per giungere al racconto equilibrato e veritiero del passato al netto di ogni ideologismo.

La formula scelta da Pansa, consapevole di non avere gli strumenti dello storico, per raccontare la storia “dimenticata” era stata quella del romanzo-saggio, ovvero del romanzo storico che, modificando le proporzioni di storia e di invenzione di tipo ottocentesco, affidava alla finzione la storia di cornice (ad esempio nei Figli dell’aquila il narratore raccoglie la storia da una testimone indiretta, la moglie ormai vedova di uno dei ragazzi che scelsero con determinata consapevolezza la “parte sbagliata” e combatterono per la Repubblica di Salò) per poter raccontare i fatti come li aveva ricostruiti dalla scarna (per non dire quasi inesistente) bibliografia sull’argomento.

Oggi, uno storico dell’arte salito agli onori delle cronache più per la sua militanza politica che per la sua saggistica accademica, Tommaso Montanari, si scaglia contro la memoria di Pansa contestando ai suoi libri il rigore accademico (non ci sono le note a pie’ di pagina, e neppure la citazione delle fonti o la produzione dei documenti); l’opera di Pansa, per Montanari, è «una continua, abile, suggestiva manipolazione dei fatti che mira a costruire […] un falso storico» di conseguenza si tratta di «testi privi di qualunque valore cognitivo, irti di coscienti omissioni, falsificazioni, disonestà intellettuali di ogni tipo» come scrive sul sito di «MicroMega e come riportato tal quale da Aldo Grasso nel suo Padiglione Italia sul Corsera di domenica 19 gennaio.

Montanari nella sua replica di oggi (20 gennaio) a Aldo Grasso definisce i libri di Pansa il prodotto romanzato dell’opera di Giorgio Pisanò e “della sterminata memorialistica dei repubblichini di Salò”.

È vero, Montanari ha ragione (a parte l’aggettivo sterminata attribuito alla memorialistica dei repubblichini di Salò che in realtà è assai smilza, non tanto per ragioni intrinseche quanto perché per i vinti era difficile se non impossibile trovare case editrici disposte a pubblicare i loro libri, se qualcuno fosse interessato mi permetto di rimandare al mio saggio La memoria rimossa, voci e atmosfere della RSI  pubblicato in volume –AAVV Le fonti della storia della RSI a cura di Aldo Ricci, Marsilio nel 2005; così Montanari non potrà lamentare carenza di riferimenti bibliografici) quelli di Pansa sono romanzi, è vero le sue fonti sono in gran parte le pubblicazioni di Giorgio Pisanò, e la memorialistica repubblichina, e allora?

Perché un romanzo dovrebbe avere minore dignità di un saggio nella costruzione della coscienza collettiva? Non pretendiamo che Montanari conosca lo statuto del romanzo storico, e neppure che abbia cognizione di causa sulla funzione sociale del romanzo, neppure gli è richiesto di sapere come e quanto la storiografia consideri la memorialistica fonte secondaria (ma non per questo insignificante) per il lavoro dello storico (cfr. Pertici), Montanari è uno storico dell’arte e queste cose non è tenuto a saperle, però sarebbe tenuto ad evitare di scrivere sciocchezze.

Pansa non si è mai dichiarato storico, ma non per questo Montanari può definire falsità i contenuti dei suoi libri; dichiarerebbe falsità storiche quelle contenute in forma di romanzo nei Promessi Sposi?

E, di grazia, potrebbe, lo storico dell’arte Montanari, indicare (documenti alla mano) quali sarebbero le falsità nei libri di Pansa?

Oppure per Montanari è falsità tutto ciò che non è accettato dalla storiografia dei vincitori? Montanari dunque dichiarerebbe falsità anche l’opera di Renzo De Felice in quanto revisionista?

E ancora, perché va bene un brutto (lo abbia scritto qualche tempo fa motivando il nostro giudizio) romanzo storico come quello che Scurati dedica a Mussolini? Forse perché in quel caso Scurati non dimentica di fare emergere in ogni pagina la sua limpida coscienza antifascista?

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