Musica e pittura

Ludwig Van Beethoven e il quesito insensato

Quale tra i pittori futuristi avrebbe degnamente potuto ritrarre una dimora del grande compositore?

di Curzio Vivarelli

Ludwig Van Beethoven e il quesito insensato

Vorrei avere il genio che hanno alcuni pittori tedeschi del tempo andato, i quali erano capaci di dare alla perfezione la poesia d'una via notturna, prossima alla campagna, fra le case rustiche illuminate dalla flebile luce d'un lampioncino..

 

Ed ecco la domanda destinata a restar retorica: chi dei futuristi avrebbe potuto trarre a soggetto d'un suo quadro la casetta di Heiligenstadt, alla periferia di Vienna, ove il Ciclope di Bonn, Ludovico van Beethoven passò alcune delle sue villeggiature? Ovvero ancora: chi potrebbe disegnare in ispirito davvero futurista questa fatale piccola magione, la più onorata da cartoline quadri illustrazioni che arrivano perfino a sembrare gli ex-voto d'un culto novello tributato all'eroe delle nove sinfonie?

 

E perchè proprio i futuristi avrebbero dovuto dipingere questa casetta? Non bastano ed avanzano i tanti pittorucoli tedeschi di cartoline? Non bastano - e sono dei lavori di eccellente valore - le silografie del grande secessionista viennese Carl Moll, un austrotedesco legato all'ottocento e vissuto però ben oltre i limiti di tempo del futurismo?

E non basta il bellissimo quadro ad olio sempre di Moll con la parte di questa casa su due corpi che dà sulla Pfarrplatz, con l'albero dalle folte fronde primaverili, i due portoni di rustica e rubesta eleganza, ed il lampioncino pronto ad offrire al viatore che di qui passi la sua tenue luce in una sera di marzo?

 

Motivi in vero ce ne sono e senza abbondare: restando nel laconico spazio di qualche pagina documentaria, se li si volesse enumerare per iscritto, li riassumo in un paio di periodi: nel celebre trittico di Umberto Boccioni dedicato alle partenze: il dipinto titolato"quelli che vanno", di poi quello titolato "quelli che restano", e la tavola "gli addii" hanno una matrice, così viene affermato in uno studio sul futurismo eseguito da un autorevole storico dell'arte, beethoveniana: da una ben nota sonata per pianoforte del Ciclope.

 

E ancora il grande sodale di gioventù di Boccioni, suo compagno di viaggio in Francia, suo compagno nel famoso raggruppamento dei volontari ciclisti lombardi nelle operazioni di Dosso Casina durante il primo anno della guerra mondiale: Mario Sironi, appassionato collezionista di dischi, e ascoltatore delle più raffinate composizioni beethoveniane che già in tempi di grammofoni a tromba erano state trasposte sui solchi di quei piatti circolari in vinile da far scorrere sotto la puntina.

 

Non credo sia necessario sviluppare oltre i motivi reconditi a questo strampalato quesito: esso è in fondo il guizzo della fantasia d'un dilettante e non certo la meditazione d'un severo erudito: ci deve contentare e, se lo si desidera, leggere nelle righe a venire...

Trattasi dunque di soffermarsi di qui in poi su d'una pagina di quelle che lo Schopenhauer avrebbe detto far parte della "letteratura d'intrattenimento".

 

Era verso i primi giorni di gennaio che nel romitaggio d'un paesino aggrappato ad un poggio settentrionale sulla valle del Limestre, nell'alto pistoiese, chiamato Gavinana: avevo trovato nella cucina della casa due curiosi fascicoli datati al 1942 ove un bravo prosatore, Silvio Platen, raccontava con stile assai stringato ma efficace della fatidica avventura in Russia al seguito di Napoleone dei reggimenti italiani agli ordini del principe Eugenio e del Murat. La campagna del 1812!

La lettura del saggio redatto in buono stile militare era davvero avvincente, essa in effetti mi faceva discoprire una pagina di storia alquanto ignorata nei programmi delle nostre scuole. Ecco che i passi non più facilmente afferrabili dell'inno ai fatti del 1821 d'Alessandro Manzoni si chiarivano. Rammento tanto per restar entro il nostro tema che quest'inno venne dedicato dall'autore dei Promessi Sposi a Teodoro Korner, un giovane patriota caduto da eroe nella guerra prussiana contro Napoleone del 1813, il quale era primogenito d'un musicista che fu caro sodale di Ludovico van Beethoven! E dalla lettura del saggio suddetto anche s'illuminavano gli angoli meno espliciti della canzone "all'Italia" di Leopardi il nostro poeta che in altre pagine, su d'un mio diario, saluto quale puro spirito beethoveniano!

Contento della scoperta di questa strana pagina storica volli redigere per mio conto un riassunto del buon saggio del Platen e iniziai, la sera, sul tavolo della cucina, alla fiamma della stufa a petrolio, a riempire di fitti appunti a lapis i foglietti volanti d'un taccuino ingiallito, dimenticato in un cassetto nella casa gavinanese da molti anni.

 

Il lavoro di minuta annotazione dei fatti memorabili di quella lontana campagna militare era per il vero faticoso quanto ci si può attendere: e allora ecco che a curare il tedio inauguravo la buona norma d'intermettere ogni tanto, diciamo ogni tre quarti d'ora, alla scrittura uno scarabocchio, sempre a lapis, sul retro dei foglietti che via via venivo esaurendo.

 

Anche gli scarabocchi da un certo punto in poi, dovendo sottostare alla disciplina delle pause, era opportuno ordinare ad un "leit-motiv" che ne fornisse una minima giustificazione: e così, dopo qualche schizzo estemporaneo ed inutile, deve essermi balenato, nello scarabocchiare la celebre casetta di Heiligenstadt per l'ennesima volta, il quesito che dà la sostanza a questo scritto. Particolari che riescano ad isolare l'istante dell'affacciarsi di tale idea e a restituirne esatta immagine, strampalata o meno che sia, proprio non saprei dare, e tutto di poi s'è perso nel susseguirsi dei pensieri... In ogni caso ad un tratto mi domandai, appunto, come avrei potuto disegnare la casetta di Heiligenstadt in istile futurista, ovvero per ulteriore deduzione, come avrebbero disegnato degli artisti futuristi questa magione, che è un "tempio della musica"?

 

Ho di poi reso assai più sbrigativa la questione e la domanda alla fine mi si è formulata nel suo termine ultimativo e, credo, più sensato nell'insensatezza della sua impossibilità d'aver alcuna risposta reale ma solo di fantasia. Non è tuttavia inutile proseguire, sia pure esposti al sorriso di compatimento dell'erudito o dell'artista che spumeggi di continua invenzione...

 

Ecco infine: chi può in istile futurista "sentir" al meglio la poesia di questa magione del Ciclope? Vado per le vie brevi e dico a me stesso e al lettore: eccoli i disegnatori, son tre, sono Umberto Boccioni, Gerardo Dottori, Mario Sironi. Trattasi d'una mia intuizione e dunque mi dispenso dall'esplicitare raziocinii che s'assumano il compito, inutile credo, di giustificare questa faccenda sensata ed insensata ad un tempo.

 

Boccioni della casetta ne vedrebbe il movimento entro la metropoli "che sale": non la casina, diciamo noi a posteriori, movesi e ruota come pianeta intorno il sole della capitale che cresce a dismisura: essa è il ridotto tempietto che sfida i tempi e resta quale "ombelico delle Muse" eguale a se stessa mentre è la metropoli a doversi muovere in orbita attorno di essa, ad avvolgerla senza riuscire a soffocarla! Il dinamismo possente della divina musica del Ciclope nulla teme in fondo, essendo questa musica una poesia fuori tempospazio... E quei continui colpi di tamburo che ritmano le sinfonie (ed ora immagino Furtwängler a dirigere la sua Filarmonica berlinese e Mengelberg che dirige l'orchestra del Concertgebouw d'Amsterdam!)  e son battuti senza gastigo alcuno, a buon fracasso, ne danno la piena conferma: tutto qui è poesia fuori tempospazio: l'Eroica, la Quinta, la Pastorale, la Settima (è solo apoteosi della danza come vuole Wagner o è qualcosa di più?), il furore razionale e mistico dell'Ottava, i primi tre moti della Nona. Ecco che i colpi di tamburo generano lampi e serpentine di luce, la musica sfonda le pareti e per irradiazioni tutto travolge... 

 

E Dottori? Ne vedrebbe una panoramica dall'alto; e da aeropittore perugino non potrebbe che esordire al suono della Pastorale! Sei asceso fino ad udire a quote d'aquila il terzo movimento della nona sinfonia, nel suo lento volteggio, come l'aquila che perlustra la sua regione, e tu vedi la casetta di Heiligenstadt! Ora al declinare del dì si accendono i primi astri, di lì a poco si fa notte e nel cono di luce d'una stella del firmamento, la casetta luccica: il tetto ha i tegoli di bruno colore  rugginoso, candidi i muri, sono celesti ed oscurate le aperture: solo da una di esse traluce il raggio della lampada accesa sul pianoforte: il Ciclope è ancora sveglio e nella quiete compone...

All'esterno la luce della stella che proietta il cono luminoso è soccorsa per quel che può dal modesto lampioncino acceso che illumina anche la piazzetta con l'albero, il portone, l'angolo della chiesiola con il lucernario acuminato ed ottagono sul capo della facciata nuda! Tutt'intorno è quiete e oscurità celeste, di lontano, dall'alto, sparisce la metropoli e tu vedi solo le colline del bosco viennese, i rii che solcano le vallette fiorite, lenta sulla pianura vedesi scorrere la serpentina argentea del Danubio... Lontanissimi sono gli altri rilievi, e le altre pianure...

 

Sironi della casetta di Heiligenstadt ne vedrebbe la gloria remota presso i posteri, oramai soli e dispersi nella desolata periferia! Heiligenstadt, nel 1819 era a quattro chilometri dallo Stephansdom, la cattedrale che alberga i capolavori di maestro Antonio Pilgram, e quindi era in aperta campagna; oggi è in prima periferia, la metropoli è salita ed è questa, la periferica, la stagione presente e viva ed il suon di lei: le possiamo adattare il verso dell'Infinito di Leopardi!

Sironi la disegnerebbe, questa casetta, in isbrigativa prospettiva accidentale, campeggerebbe architettonica e sovrastata da cumuli di nubi oscure... A guisa di paesaggio per il ritorno ai primordi dell'"essere mentale", operaio di mestiere, ma non più tale per la consueta lunga meditazione: i perchè dell'esistenza alla quale siamo in pasto gettati...

 

Fin qui lascio errare gli equi del carro fantastico, oltre, va da sè, non serve andare, il lettore può proseguire per suo conto, se n'abbia voglia, la strana congettura storico artistica senza senso.

Piuttosto, tornando ai fatti meritevoli d'indagine seria, potremmo scrivere una memoria erudita sul cosiddetto culto delle abitazioni del divino Beethoven! Il nostro Buscaroli scrisse, or sono molti anni, addirittura un aureo volumetto titolato "Le case di Beethoven" inaugurando per quel che è dato sapere oggi, la scuola italiana di tale indagine. E nel volumetto erano a corredo sei disegni dell'Autore che doveva di poi affermarsi quale grande biografo del "Tondichter" nato alle Muse in quel di Bonn: sei semplici disegni a penna cui Buscaroli toglieva ogni pretesa d'arte, e così faceva cosa ben fatta, ma dimenticando di toglier loro qualsiasi pretesa di "bellezza": e questa era un'indovinatissima svista, perchè se qualcuno desideri sapere come si possa comunicare, figurare, rappresentare della vera poesia in immagine, il che è come dire "bellezza", può benissimo prendersi ad esempio proprio questi semplici bozzetti a penna!

Come progredire all'ora nello studio di questo vero culto? Difficile dire dal presente punto di vista alquanto dilettantesco: un culto però sembra intuirsi dalla continua delicata vena che pittori dilettanti, allievi di scuola d'arte, maestri riconosciuti del pennello o dell'incisione esibiscono da cent'anni e oltre nel raffigurare le modeste abitazioni che si trovarono ad albergare fra le pareti il Genio- a volte ridotte persino a taverne fumose per il tiraggio del focolare dolosamente lasciato in difetto dai padroni della casa per guadagnare il più possibile dall'illustrissimo pigionale.

Ci vorrebbe in nostro soccorso un Eliade, un Leopoldo von Schröder, un Karl von Spiess per comprendere a fondo il fenomeno di questi ex-voto che divengono praticamente religiosi: disegnare le casette, e fra queste la massime figurata è quella nella piazzetta di Heiligenstadt! assume forse il valore d'un tributo di devozione all'eguale dei piccoli equi in miniatura dedicati e rinvenuti nell'antico santuario della Dea Rethia in Veneto?

 

E devozione a cosa? Certo nel Ciclope alberga un Nume, e la Musa ne dà perenni esplicite conferme, ma all'ora perchè disegnare la casetta, e le case, dove egli visse perennemente infastidito da proprietari avari ed incapaci, circondato da segretari e fantesche spesso inclini alla disonestà? Beethoven non possedette mai una casa propria! Come dire con una buona dose di canzonatura: al Nume era prestato il Tempio! Oppure: nell'Olimpo tocca a volte stare a pigione...

 

Una traccia sicura per la seria proposta d'indagine è costretta ad arrestarsi per scarsità d'argomenti sostenuti da un'inoppugnabile documentazione che spazi nel tempo e per le varie regioni della scienza. Poco ci resta per esser certi che l'intuizione non sia campata in aria, non sia come un possente rapace che d'un tratto, gettandosi dal nido si scopra, precipitando, di aver le tozze ali d'un pollo. Ma questo poco non è così disarmato per qualità: ed esso viene dalla poesia.

 

È in una pagina memoriale di Franz Grillparzer: egli, giovinetto poco più che dodicenne, si trovò per alcune stagioni estive a passare la villeggiatura nella medesima casa dove in altre stanze alloggiava il Ciclope, il quale come raccontano le biografie faceva traslocare con le sue poche masserizie anche un pianoforte. La madre del poeta un pomeriggio, dopo esser stata a far delle spese, rientrava in casa e salendo le scale comuni udì provenire dalle stanze dove Beethoven abitava una musica bellissima: la madre ne restò rapita e volle sedersi con ancora il cesto ingombro degli acquisti sugli scalini per non perdere nemmeno una nota della musica che fuggiva da quella porta sbarrata. Il Ciclope stava componendo, ma nell'eseguire le note allo strumento così che il suono traversasse le porte, andasse per le rustiche mura, e di poi per le scale e la corticella interna fondava ad uso di altri, inaugurandone al tempo stesso una stazione, il futuro culto d'un novello immenso "genius loci".

 

Poscritto necessario.

 Allego allo scritto tre schizzi ad inchiostro, i quali, appunto, son a tergo delle note sulle imprese eroiche della divisione Pino, della cavalleria di Villata, delle fanterie di linea toscane, piemontesi, parmensi delle quali il MitraVaruna di Ajaccio, Napoleone - cui per alcun tempo fu dedicata la terza sinfonia - s'è ricordato nel Memoriale di Sant'Elena. Sfumato nei deboli tratteggi del lapis il racconto della battaglia di Malo-Jaroslavez, sui fogli il lettore può riconoscere, nel primo una suggestione "boccioniana", nel secondo, con il cono di luce nell'oscurità, un qualcosa che già si vide nei quadri di Dottori, nell'ultimo la prospettiva accidentale e stilizzata che sempre colpisce negli sbrigativi ed efficaci bozzetti di Mario Sironi... 

 (il primo è l'immagine di copertina)

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