Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
“Questo secolo ci dava l’esempio di una grande rivoluzione, la quale, poi, finiva colla dichiarazione ottenuta dalle ingegnose mene degli abili cospiratori, della decadenza delle antiche Dinastie e, fra queste, pure di quella di Lorena, regnante in Toscana, della quale anche i liberali stessi non possono pretendere di negare quei tanti meriti coi quali erasi acquistata un ben dovuto affetto nei popoli. Ma tutto ciò non valse ad arrestare il corso di quell’opera perturbatrice, che cercava di allettare il popolo colle affascinanti parole unità, libertà.” [1]
Così il colonnello Michele Sardi, ex comandante superiore della gendarmeria del granducato di Toscana, inizia le sue memorie, probabilmente stese a Pietrasanta nel 1870 e pubblicate nel 2007 a cura dello storico Giovanni Cipriani. Opera di grande interesse, che dà un contributo fondamentale a smontare uno dei tanti falsi miti del “risorgimento”, quello della pacifica, bonaria e soprattutto “spontanea” rivoluzione toscana, che fu in realtà studiata a tavolino e orchestrata dal governo piemontese – soprattutto tramite l’ambasciatore Carlo Buoncompagni ministro di Sua Maestà il re del Piemonte – il quale, come ricorda lo stesso Sardi, ospitava nella sua sede il comitato dirigente la cospirazione insieme a Ricasoli, Peruzzi e l’avvocato Galeotti. Sardi li aveva individuati ed aveva apprestato un piano per arrestarli tutti quanti e farli trasferire in silenzio a Volterra e da lì a Portoferraio.
Un vero peccato, davvero, che il piano del leale soldato lorenese non abbia avuto effetto. Forse questo non avrebbe cambiato il corso degli eventi, ma se non altro non sarebbe nato quel mito stucchevole e posticcio della “spontanea” rivoluzione toscana, che non fu per l’appunto né spontanea né rivoluzione. Ma già in diverse occasioni abbiamo rievocato, qui e altrove, gli eventi del 27 aprile 1859; data che qualche politicastro odierno vorrebbe considerare come “festa”, salvo poi magari riempirsi la bocca con la storia del Granducato e riconoscerne – ovviamente tramite studi e contributi altrui – gli indiscutibili meriti.
Dato che ogni 27 aprile chi scrive si sente in dovere di rievocare quegli eventi così particolari e a suo giudizio ben poco gloriosi, è inutile ricostruire per l’ennesima volta gli eventi che portarono alla partenza di Leopoldo II, generosamente preoccupato più della vita e dell’incolumità dei suoi sudditi che non dei propri diritti e dell’incredibile sopruso che veniva perpetrato, a danno suo e della sua benemerita famiglia, ma credo si possa aggiungere anche dell’intera Toscana. [2]
Occorre infatti ricordare come il granducato, nato con Cosimo I nel 1569, sia stato per quasi tre secoli uno stato modello non solo in Italia ma in Europa. Innumerevoli le attività culturali promosse dalla corte – ricordiamo solo la nascita della “favola in musica”, antenata di quel melodramma destinato a diventare la prima forma d’arte autenticamente “popolare”, nato col patrocinio di Ferdinando I nel 1600 in occasione del matrimonio tra Maria de’ Medici ed Enrico IV; e in campo scientifico l’Accademia del Cimento, all’insegna del motto dantesco provando e riprovando, erede di Galileo, promossa nel 1657 dal principe Leopoldo e dal granduca Ferdinando II. Interesse per l’arte, per la letteratura e la scienza furono costanti nel granducato; e se le riforme di Pietro Leopoldo – compresa l’abolizione, prima in uno stato, della pena capitale – sono tra le più celebrate e magnificate del cd secolo dei lumi, non bisognerebbe dimenticare a questo proposito i grandi e straordinari meriti dell’ultimo granduca: strade ferrate, pubblica illuminazione a gas, congressi scientifici, tra cui da ricordare i “congressi degli scienziati italiani” del 1839 e del 1841 a Pisa e Firenze, poco graditi al governo austriaco da cui Leopoldo seppe in più di una occasione prendere le distanze; tutte queste cose furono da lui promosse e seguite con grande attenzione tutta “asburgica”, come emerge dalla lettura dei suoi documenti e delle sue lettere. La sua preoccupazione principale fu tuttavia la Maremma, (“ Io sapevo la Maremma esser malata; quindi in me il desiderio di soccorrere prima si potesse alla provincia inferma e bisognosa di cura; in una famiglia, l'infermità di una figlia richiede la cura del padre ed imbarazza ogni affare alla famiglia “) cosa di cui i grossetani gli sono tutt’oggi profondamente e giustamente grati, come testimonia il monumento in sua memoria; e sempre a Grosseto altro segno bellissimo di civile riconoscenza, c’è anche un istituto agrario a lui intitolato, sovrano che tanto fece e tanto amò tutta la Toscana, ma con un occhio particolare a quelle zone.
Infine, ricorreva quest’anno il 150° anniversario della scomparsa del Granduca, morto a Roma dove si era recato in occasione dell’imminente concilio Vaticano I, nella notte tra il 28 e il 29 gennaio 1870. Un evento del tutto o quasi ignorato in Toscana; del resto, anche all'epoca in quella circostanza la meschinità della corte sabauda non mancò di farsi sentire: “ La Gazzetta ufficiale del regno, nel dare la notizia della sua fine, lo indicava col solo titolo d’arciduca d’Austria, come se la storia di 35 anni di governo si potesse dimenticare e cancellare” scrive una fonte tra l’altro tutt’altro che particolarmente favorevole al sovrano. [3] In compenso non lo dimenticarono i toscani, che anzi iniziarono ben presto a rimpiangerlo, e in numerose città toscana furono celebrate messe in suo suffragio. Leopoldo del resto, che all’indomani del 27 aprile aveva abdicato in favore del figlio Ferdinando IV, che però di fatto non poté mai regnare, continuò ad interessarsi della Toscana fino all’ultimo giorno della sua vita, mantenendosi in rapporto epistolare con chi gli era rimasto fedele, ricevendo con gioia visite di toscani e senza reagire alla velenosa e ingiusta propaganda che i lacchè del nuovo regime non mancarono di scatenargli contro e che per più di un secolo ne hanno condizionato un giudizio storico tutt’altro che equanime ed equilibrato.
In chiusura, la citazione di un documento che chi scrive ha avuto l’onore di studiare “in esclusiva” in quanto proveniente da un fondo privato, un carteggio tra Leopoldo e il suo ministro dell’interno Leonida Landucci: siamo ormai nel maggio 1860 e il granduca approva la decisione del suo ormai ex consigliere di tornare in Toscana, con queste bellissime parole:
“ “ Vedo che ella pensa presto ritornare in patria ed intendo che ella non può fare diversamente, perciò non faccio alcune osservazioni in contrario (…) Dopo cinque mesi di continua neve è tornata primavera e tutta natura è adornata di foglie e di fiori, senza che sia mutata in niente la posizione delle cose, se non anco aggravata. A me non pare possibile che così si possa durare, ma il danno di aumenta sempre più. Mi par di vedere una disposizione della Provvidenza che noi non si intende” [4]
Il granduca non riesce a farsi una ragione del fatto che ormai la storia della Toscana è cambiata: la fede nella Provvidenza non viene mai meno in lui, ma certo traspare anche una giustificata amarezza. Ed oggi più che mai questo sovrano buono, generoso e saggio meriterebbe un monumento in ogni città toscana (ve ne sono comunque diversi, per fortuna) e soprattutto, come più volte ribadito, di riposare in San Lorenzo con i suoi antecessori, in quella Toscana da cui il suo cuore non è mai partito.
[1] Giovanni CIPRIANI, Michele sardi, le memorie e l’archivio di un filolorenese, Firenze, Nicomp, 2007, p. 163
[2] Rimando a questo proposito ad alcuni miei articoli arretrati: https://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=8998&categoria=1&sezione=&rubrica=
https://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=9146&categoria=1&sezione=48&rubrica=
[3] Antonio ARCHI, Gli ultimi Asburgo e gli ultimi Borbone in Italia, 1814-1861, Rocca San Casciano, Cappelli, 1965. p. 196.
[4] Domenico DEL NERO, “Caro Consigliere … Firmato Leopoldo II” in Il Giornale della Toscana, Firenze, 9 marzo 1999, p.10.