Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Il Paradiso, di Tintoretto
Negli ultimi anni abbiamo potuto assistere nella sede delle Scuderie papali romane a varie mostre legate fra loro dal comune riferimento alla grande tradizione pittorica veneta. Ricordiamo gli allestimenti delle opere di Giovanni Bellini e Lorenzo Lotto, oltre che di Antonello da Messina e Albrecht Durer, questi ultimi non veneti ma legati saldamente, nella loro espressività artistica, alla cultura della Serenissima. Il motivo di tutta questa attenzione è molto semplice: Venezia per tutto l’arco del Rinascimento fino alla fine del Cinquecento tenne alta la bandiera dell’arte italiana e influenzò in termini decisivi anche le altre scuole regionali.
È giunto ora il momento del grande Tintoretto, al secolo Jacopo Robusti (1519-1594), il pittore “regista”, come lo definisce Vittorio Sgarbi, curatore della bella mostra – inaugurata alla fine dello scorso febbraio e aperta fino al 10 giugno 2012 – e del catalogo edito da Skira. Tintoretto fu un pittore di grande personalità, giocò con i pennelli e i colori, coerentemente con la cultura coloristica veneta, senza farsi intimidire dalle soluzioni espressive del contemporaneo Michelangelo Buonarroti, genio che aveva posto ogni artista della sua epoca dinanzi a fondamentali quesiti circa la “maniera” e lo stile pittorico. La mostra, attraverso un percorso cronologico e tematico, ci racconta ordinatamente la storia e il carattere dell’artista, dalle prime opere fino al bruciante autoritratto finale, summa di una vita lunga e faticosamente compiuta.
Tintoretto nasce a Venezia in una famiglia di umili origini. Il padre tintore (da cui il nome di famiglia) inizia a farlo praticare in bottega, ma presto si rende conto delle capacità artistiche del figlio e lo manda ad apprendere nozioni di pittura nello studio di uno dei più apprezzati artisti della città: Tiziano Vecellio. L’esperienza, sulla base di quanto riferiscono i documenti, è di breve durata. È stato osservato che la causa di ciò possa essere individuata nella volontà del maestro di allontanare un allievo troppo dotato. Tintoretto non riesce subito a far parte del variopinto mondo delle principali committenze cittadine; al contrario egli è inizialmente un escluso, costretto ad affinare la propria tecnica lontano dalle botteghe artistiche locali.
Il consolidato percorso di formazione che porta un garzone, all’interno del microcosmo di una bottega, ad apprendere come macinare i colori, come preparare una tela, realizzare le imprimiture, tracciare il disegno, imparare a copiare per poter un giorno creare, e infine insomma dipingere solitamente acquisendo lo stile del maestro di riferimento, questo percorso, consueto per gli apprendisti pittori dell’epoca, è estraneo al giovane Jacopo, il quale apprende queste tecniche in autonomia, con forte disciplina personale. Egli sceglie indipendentemente i propri riferimenti, i propri maestri: e si ispira liberamente a Michelangelo e a Sansovino, dai quali copia in abbondanza, abituando la propria mano alla disciplinata linea disegnativa toscana. Ma la sua curiosità è inarrestabile e il giovane si interessa agli stili più disparati, giungendo a frequentare anche pittori di dubbia reputazione, dediti ad opere seriali e talvolta più specificamente ornatori e semplici frescanti. Tintoretto osserva e impara da tutti. Scrive di lui Giorgio Vasari nelle Vite (edito nel 1550 e aggiornato nel 1568) che la sua maggior qualità è il «tirar via di pratica».
Nel 1537 Tintoretto ottiene il titolo di Maestro della Fraglia dei Pittori, dopo aver conseguito le prove richieste e si può permettere di aprire ufficialmente la propria bottega nella città lagunare. Iniziano le committenze private che lo avvicinano gradualmente alla cerchia della colta nobiltà veneziana. In questo periodo conosce Pietro Aretino grazie a Francesco Marcolini da Forlì, poliedrico personaggio dedito all’editoria, alla letteratura, all’architettura seppur in modo dilettantesco, un amante delle belle arti insomma che lo introduce in un promettente circolo. Aretino è potente in città, vive nel lusso e si prodiga in giudizi sulla cultura e sull’arte contemporanea. È benevolo il suo parere sulle capacità di Tintoretto, in particola ne loda la perizia nel disegno e nel chiaroscuro, la rapidità d’esecuzione, criticando invece la tendenza a tirar via e all’imperfezione. Inoltre il giudizio dell’Aretino relativo all’indole del pittore, umbratile, superba e con tendenza alla collera, è passato alla storia con queste parole: “tristizia e pazzia”. Infatti Tintoretto, a lungo escluso dalla cerchia delle maggiori committenze lagunari, ossia quelle pubbliche, soffre profondamente e si rovina il carattere.
Poi nel 1548 Tintoretto dipinge Il Miracolo dello schiavo per la Scuola Grande di San Marco e a questa committenza si lega l’inizio della grande attività del pittore che dimostra in modo inaspettato e rivoluzionario la propria personale visione artistica, fatta di forme vorticose e cromie brillanti. In lui convivono il disegno michelangiolesco e il colore di Tiziano. Da allora le richieste per le sue opere aumentano e Tintoretto viene chiamato a dipingere per la Repubblica e per il Palazzo Ducale.
L’altro fondamentale evento per la sua carriera va ricercato un po’ più avanti quando nel 1564 la Scuola Grande di San Rocco bandisce un concorso per la decorazione del soffitto della sala detta dell’Albergo. Viene richiesta la realizzazione di un bozzetto ai pittori Paolo Veronese, Federico Zuccari, Giuseppe Salviati e a Tintoretto, il quale colse tutti di sorpresa presentando direttamente l’opera finita e regalandola alla Scuola, accaparrandosi in questo modo l’ambita committenza.
Nel frattempo il pittore è divenuto uno dei maggiori ritrattisti della città, i cui mecenati e uomini di cultura, al pari di gentiluomini e commercianti, amano farsi immortalare. Egli ci lascia nelle sue tele uno spaccato vivido di quella società e la sua spiccata percezione della psicologia umana diviene ancora più sottile nel proprio magnifico Autoritratto realizzato in tarda età (1588-89). Il punto più alto della sua attività va individuato probabilmente alla fine degli anni Ottanta nella magnifica, trionfalistica e mistica opera realizzata per la sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale: il Paradiso, di cui è noto anche un bozzetto (attualmente esposto nella mostra romana). Tutta la cultura artistica e la sensibilità del pittore sono racchiuse nei colori squillanti e nelle forme vivide, trasfigurate in un vortice gioioso di luce.
Attraverso la sua lunga carriera Tintoretto fu apprezzato e criticato. Divenne il primo esponente della scuola veneta di metà Cinquecento, dopo la morte di Tiziano (1576), e ancora in età contemporanea trova amatori e detrattori di quel suo stile così personale. Il grande storico dell’arte Roberto Longhi gli rimproverava la mancanza di “accademia” in tutta quella furia creativa, riallacciandosi allo storico e biografo cinquecentesco Giorgio Vasari che già aveva definito quella pittura priva di giudizio e come imperniata di una sorta di «terribilità», sottolineando così la travolgente meraviglia che il pittore veneziano era in grado suscitare con colori e pennelli. Concludiamo con le parole di Antonio Paolucci, (Presidente del Comitato Scientifico delle Scuderie del Quirinale): «vivesse oggi il Tintoretto farebbe il regista degli effetti speciali».
Inserito da alfiuzzo in rosa il 15/04/2012 16:12:30
Splendido e chiarissimo!
Inserito da annaswing il 15/04/2012 14:48:29
articolo molto interessante soprattutto per la chiarezza di Michela Gianfranceschi
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