Editoriale

ROCK E POLITICA: un luogo comune da sfatare

Le tendenza del progressismo odierno di cancellare il passato non è una novità: le radici sono negli anni sessanta del secolo scorso.

Italo Inglese

di Italo Inglese

più radicali tendenze del progressismo del tempo presente (la cosiddetta “cancel culture”, che mira a riscrivere il passato espungendo dalla storia ogni elemento ad essa non gradito, la concezione globalista, che nega le sovranità nazionali, certe forme estreme di ecologismo e di promozione della teoria del gender) non sono nate oggi ma affondano le proprie radici negli anni Sessanta del secolo scorso, gli anni “in cui prendeva forma il mondo nel senso in cui lo conosciamo, analizziamo e comprendiamo ora” (George Diez, Beatles contro Rolling Stones, Feltrinelli 2001, p. 18).

Infatti, già i movimenti giovanili della controcultura statunitense di quel periodo definivano i Padri Pellegrini “malviventi e galeotti”; aggregavano nel Rainbow People’s Party (il partito del popolo dell’arcobaleno) le minoranze etniche coalizzate contro il potere bianco; professavano l’antimilitarismo, il pacifismo, l’egualitarismo, la libertà sessuale e la cultura anti-sessista; perseguivano la liberazione del pianeta dall’inquinamento, la legalizzazione delle droghe, un femminismo che, come ha scritto Joan Didion (The White Album, il Saggiatore 2015, p. 108 e s.) considerava le donne marxianamente come “classe”, ipotizzando di trascendere, attraverso la tecnologia, l’organizzazione stessa della natura, al fine di preservare le donne dall’ “ingiusta” riproduzione convenzionale della specie. Persino il primo “vaffa” collettivo all’indirizzo del Governo risale a quell’epoca. Veniva scandito, su esortazione del cantante Country Joe McDonald, da un folto pubblico in occasione di festival musicali. Grillo non ha inventato nulla.

Questi movimenti pacifisti – i quali sostenevano che la guerra è sempre sbagliata, anche quando è “giusta” – non esitavano a incitare alla disobbedienza civile e alla mobilitazione violenta per il conseguimento dei propri obbiettivi. La cantante Joan Baez – raffigurata dal cartoonist Al Capp come “Joanie Phoanie”, cioè “Giovannina Fasulla”, una che predica bene e razzola male – attuò l’obiezione di coscienza fiscale rifiutandosi di pagare le tasse per la percentuale corrispondente a quella delle spese belliche.

Perlomeno però allora le rivendicazioni più fantasiose e squinternate, che oggi vengono promosse seriosamente e con ottusa caparbietà da tetri esponenti dell’establishment, erano pronunciate in un’atmosfera goliardica da variopinti ed eccentrici personaggi come i Merry Pranksters (“Allegri Mattacchioni”), capeggiati dal poeta beat Neal Cassady e dallo scrittore Ken Kesey, e come Timothy Leary, il “profeta dell’LSD”, capaci di esercitare un sia pur malsano potere seduttivo.

È opinione diffusa che la musica di quel periodo fosse strettamente connessa con la controcultura – avesse cioè un forte impegno politico – e che il rock fosse la lingua comune della gioventù pacifista e anticapitalista. Tale credenza è solo parzialmente vera. Essa trova riscontro in alcuni artisti musicalmente marginali come Pete Seeger, definito dai suoi denigratori “l’usignolo di Stalin” e “la quinta colonna vietcong nel cuore degli States” (M. Franzinelli, Rock & servizi segreti, Bollati Boringhieri 2010, pp. 21 e 27), il folksinger texano Phil Ochs, la già citata Joan Baez, la band californiana Jefferson Airplane. A parte quest’ultima, che ebbe una notevole risonanza tra il 1967 e il 1970, gli altri si limitarono a riciclare vecchi canoni, ballate anche piuttosto lagnose, in cui la musica elementare era del tutto subordinata ai testi. Non a caso, Bob Dylan, che forse opportunisticamente aveva iniziato la sua carriera all’interno di quella corrente, se ne discostò nel 1964, esponendosi a feroci accuse di tradimento da parte dei puristi della musica folk engagée. Alcuni esponenti della scena musicale italiana dell’epoca erano maggiormente ideologizzati, ma assai trascurabili sul piano internazionale.

In realtà, la maggior parte dei protagonisti della musica rock degli anni Sessanta, ma anche dei decenni successivi, erano apolitici, avversi al comunismo, refrattari a farsi coinvolgere in iniziative marcatamente ideologiche. In un famoso brano degli Who (Won’t get fooled again) veniva espresso distacco e scetticismo rispetto all’eventualità di una sollevazione estremista. Pete Townshend, chitarrista degli stessi Who, aveva già mostrato la sua ostilità verso ingerenze politiche al festival di Woodstock, quando spinse giù dal palco Abbie Hoffman, leader del movimento yippie (ala militante degli hippies), che intendeva sfruttare l’occasione per fare un comizio. L’atto fu apprezzato dagli spettatori. Keith Richards, chitarrista dei Rolling Stones, racconta che, durante un suo soggiorno a Roma nel 1967, avendo partecipato a una manifestazione degli studenti universitari, ne trasse l’impressione che quella specie di rivoluzione fosse “un fuoco di paglia” (K. Richards, Life, Feltrinelli 2010, p. 212).

Certo, i gruppi rock esprimevano pulsioni anarco-utopistiche e una ribellione nei confronti del “sistema”, ma tali tendenze non erano facilmente inquadrabili politicamente. I Greatful Dead si definivano “amici del diavolo” e paladini dell’evasione lisergica. Tuttavia, generalmente l’obbiettivo principale era di fare soldi e le potenzialità della controcultura di opporsi al sistema erano “insidiate dai meccanismi di cooptazione e dalla politica di mercato delle maggiori industrie discografiche” (M. Franzinelli, op. cit., p. 12). Nel Regno Unito, la politica redistributiva del governo laburista impone un’aliquota del 95% sulla fascia di redditi più elevati. I Beatles e i Kinks sfornano due canzoni (rispettivamente “Taxman” e “Sunny afternoon”) che otterranno una vasta popolarità, in cui si lamentano dell’opprimente pressione fiscale, anticipando la svolta neoliberista dell’era thatcheriana. A onor del vero, i Beatles hanno un’anima progressista, che si rivela durante il secondo trionfale tour negli Stati Uniti. A Jacksonville, Florida, dove ancora vigeva la segregazione razziale, i quattro musicisti di Liverpool, nonostante la giovane età e l’improvviso inebriante successo che li ha investiti, hanno l’accortezza di porre come condizione per lo svolgimento del concerto che il pubblico bianco e quello di colore non siano divisi in settori diversi degli spalti. Questo fu un importante contributo alla storia dell’emancipazione razziale. Gli afroamericani allora presenti a Jacksonville lo ricordano “come un momento decisivo della propria vita” (F. Fasce, La musica nel tempo. Una storia dei Beatles, Einaudi 2018, p. 117).

Personaggi ben più impegnati politicamente dei Beatles denotano invece una sbalorditiva spregiudicatezza nel trasformarsi da hippies in yuppies, come Jerry Rubin, leader della contestazione giovanile, che, negli anni Ottanta, diventa operatore di borsa. Eldridge Cleaver, esponente delle Black Panthers, esaurita la fase rivoluzionaria, si converte in sostenitore del partito repubblicano.

Ambiguità e incongruenze sono gli elementi caratterizzanti di un fenomeno che, come detto, sfugge a una precisa classificazione politica. Nel 1967 Allen Ginsberg, tra i massimi rappresentanti della Beat generation, che aveva già intervistato Céline, si reca a Rapallo e a Venezia per vedere Ezra Pound, nei confronti del quale nutre un sentimento di venerazione.  Nel corso degli incontri fa ascoltare all’anziano poeta dei Cantos dischi di Bob Dylan e dei Beatles, e Pound sembra apprezzare quella musica e quei testi innovativi (al riguardo, v. A. Ginsberg, Facile come respirare. Appunti, lezioni, conversazioni, Edizioni minimum fax 1998, p. 8 e ss.). In un libro pubblicato nel 1991 (Between Thought and Expression: Selected Lyrics of Lou Reed), Lou Reed, cantore della cultura underground newyorchese, manifesta la sua ammirazione per Vaclav Havel, artefice della liberazione della Cecoslovacchia dal comunismo, che lo aveva ricevuto al Castello di Praga, concedendogli una lunga intervista. È interessante notare, per quanto riguarda gli intrecci tra rock e politica, che Havel, nella carica di presidente della Cecoslovacchia, aveva nominato Frank Zappa suo ambasciatore speciale per il commercio, la cultura e il turismo. La nomina non fu gradita dal segretario di Stato USA James Baker perché l’eclettico musicista aveva in precedenza duramente polemizzato con Tipper Gore e Susan Baker (mogli rispettivamente del senatore democratico Al Gore e dello stesso segretario di Stato), le quali avevano lanciato una campagna per la censura musicale e la limitazione della libertà di espressione. A quei tempi i musicisti rock deprecavano la political correctness.

Ma vi sono anche casi di stelle del rock che si sono schierate apertamente a favore di idee conservatrici, se non reazionarie. È nota l’inclinazione perbenista e per la difesa dell’ordine costituito di Elvis Presley, il quale aveva un rapporto privilegiato con John Edgar Hoover, per lungo tempo capo dell’FBI. Una simile forma di moralismo borghese fu evidenziata dal critico musicale Lester Bangs rispetto ai testi delle composizioni dei Jethro Tull. Dal canto suo, il celeberrimo chitarrista inglese Eric Clapton, nel corso di un concerto a Birmingham nel 1976, dichiarò di condividere la posizione del politico conservatore Enoch Powell, che aveva stigmatizzato l’eccessiva immigrazione nel Regno Unito (Clapton fu poi costretto a ritrattare la sua affermazione per evitare di essere marchiato come razzista). Più recentemente analoghe opinioni dispregiative verso gli immigrati di colore sono state espressa dai Guns N’ Roses e dal cantante Morrissey, che si è anche schierato a favore della Brexit. Molti altri esempi potrebbero essere elencati. È significativo che nel 2006 il “New York Times” ha pubblicato una lista delle cinquanta canzoni rock più politicamente conservatrici (“Conservative Top 50”) di artisti del calibro dei Beatles, Who, Beach Boys, Bob Dylan, Kinks, Lynyrd Skynyrd, David Bowie, Led Zeppelin, Rolling Stones. Questi ultimi, per il servizio d’ordine nei loro concerti, si servivano degli Hell’s Angels, famigerati motociclisti con tendenze criminali e filo-naziste, i quali causarono la morte per accoltellamento di un giovane spettatore afroamericano durante il concerto del gruppo inglese tenutosi ad Altamont, California, nel 1969. Il tragico evento segnò il fallimento dell’utopia della non violenza che fino ad allora aveva pervaso il movimento hippie.

È singolare la vicenda di John Lennon, sempre combattuto tra la militanza rivoluzionaria e il rifiuto delle posizioni estremistiche. Questa contraddizione si manifesta nel brano “Revolution” del 1968, in cui il compositore, pur proclamando il suo impegno per una palingenesi progressista, prende le distanze dagli studenti maoisti e dagli attivisti radicali., suscitando le ire della Nuova Sinistra americana. La canzone fu poi utilizzata nel 1987 per una campagna pubblicitaria della Nike che ebbe grande successo ed è considerata “una delle pubblicità di maggiore impatto di tutti i tempi” (L. Scott, A, Bradshaw, Revolution, Luiss University Press 2020, p. 97). Un destino che mai Lennon avrebbe potuto immaginare.

 

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