Editoriale

Una politica culturale per il centrodestra?

Se ne parla poco, quasi per niente e quando se ne parla...

Simonetta  Bartolini

di Simonetta  Bartolini

lass="Simo" style="margin: 0cm 0cm 0.0001pt;">In previsione di una possibile vittoria del centrodestra alle prossime elezioni si torna a parlare di cultura. Qualche giorno fa sulle pagine del «Corsera» ha trovato accoglienza l’appello di Francesco Giubilei e Vittorio Sgarbi, ai tre leader Meloni, Salvini e Berlusconi, a non trascurare il tema della cultura. Il giorno di Ferragosto Luca Beatrice dalle colonne di «Libero» ha sottolineato l’importanza strategica della cultura nella vita del nostro paese. Ottimo, non si può non condividere, ma…

Se entrambi gli appelli hanno giustamente evidenziato come e quanto il centrodestra abbia allegramente lasciato la cultura al centrosinistra, in nome soprattutto dello scarso fatturato elettorale che essa può mettere a bilancio, va detto, ad onor del vero, che l’appello di Giubilei e Sgarbi non entrava nel merito specifico di un ipotetico programma culturale del centrodestra, mentre quello di Beatrice metteva in campo alcune proposte per allineare la cultura alla contemporaneità (per esempio la digitalizzazione del nostro immenso patrimonio artistico e archivistico, l’attenzione all’istruzione e alla formazione universitaria) e soprattutto stigmatizzava l’associazione in un unico calderone di Made in Italy, cultura e turismo.

Leggendo gli uni e l’altro non si può non concordare con entrambi e l’auspicio è che “là dove si puote” (per dirla con il padre Dante) qualcuno ascolti e agisca di conseguenza.

Ma… c’è un “ma”, le posizioni di Giubilei e Sgarbi da una parte e di Beatrice dall’altra hanno manifestato una divergenza non trascurabile. I primi hanno richiamato come parola d’ordine della cultura la Bellezza; il secondo ha contestato il velleitarismo inutile di tale parola-concetto, definita addirittura straziante! (stravagante per un critico d’arte).

Questo è un bel problema perché quando si parla di cultura le sfumature e le parole hanno un’importanza fondamentale.

Non si può parlare di politica culturale utilizzando semplici slogan ad uso dell’elettore medio, se “meno tasse per tutti” può funzionare per attrarre voti nel popolo più tartassato d’Europa, in campo culturale la faccenda non funziona. Vi immaginate frotte di elettori convinti a votare il centrodestra in nome della digitalizzazione (peraltro sacrosanta) degli archivi?

Il problema della cultura è appunto questo, ha bisogno di tempi lunghi, necessita di una profonda costruzione in nome di valori etico-estetici che rendano appetibile e desiderabile l’investimento economico. Perché dovremmo investire parte non trascurabile delle nostre scarse risorse economiche in un’operazione come quella invocata da Beatrice? La risposta è addirittura banale: per conservare e rendere disponibile a tutti proprio quella Bellezza che il critico d’arte considera parola obsoleta e straziante. La Bellezza, caro Beatrice, è, o dovrebbe essere, quel valore fondante dell’arte, della letteratura, dell’architettura, del paesaggio. La Bellezza è quel che attrae donne e uomini da tutto il mondo nel nostro paese; la bellezza, mi si perdoni il terribile accostamento, è il nostro petrolio (anzi meglio, aggiornando alle esigenze attuali, il nostro gas). Ma la Bellezza è una faccenda complicata e delicata, deve essere preservata, tutelata e soprattutto prodotta attraverso le arti figurative, letterarie architettoniche ecc. ecc. E qui entra in campo il buon vecchio Platone che accostava in una trinità assoluta e imprescindibile il “bello” il “buono” e il “giusto”. Appunto etica ed estetica.

Ma forse Platone, per molti appassionati di contemporaneità tecnologica, appartiene alla categoria del “vecchio” inutile e noi che lo invochiamo siamo vetuste cariatidi legate ad un tempo finito, incapaci di guardare alle “magnifiche sorti e progressive” del mondo futuro.

Può darsi. Potremmo però, a nostra discolpa, dire che le “magnifiche sorti e progressive” sono state le parole d’ordine della sinistra alla quale si vuole togliere appunto l’egemonia culturale, potremmo dire che se alla sinistra si può imputare una responsabilità grave è proprio quella di aver sacrificato sull’altare della contemporaneità assoluta qualunque valore etico-estetico, di aver immolato sull’altare di un’ideologia progressista  proprio quella Bellezza che secondo Dostoevskij potrebbe salvare il mondo, ma forse anche Fëdor è vecchio e sorpassato.

Per concludere – ma il discorso sarebbe lungo e sarebbe interessante discuterne nelle sedi appropriate con larghezza di tempo e di attenzione ­– è necessario senz’altro mettere al centro la cultura, ma per favore, non usiamola come cavallo di Troia per ottenere un po’ di visibilità sparando cazzotti in cielo, per fare inutili e sterili polemiche, per coltivare il proprio ego. Parliamone, ma parliamone seriamente, sia messo a punto un programma solido che mostri ai politici che se la cultura non porta fatturato in termini di voti, potrebbe rendere il Paese migliore e magari, chissà, radicalizzare gli elettori nelle scelte che faranno il prossimo 25 settembre. La sinistra a differenza della destra lo sta facendo da decenni.

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