Editoriale

Università: riforma dell'ANVUR, revisione del 3+2, occupabilità

Qualche idea per cominciare a cambiare il mondo accademico offrendo agli studenti percorsi formativi e docenza di eccellenza

Simonetta Bartolini Spartaco Pupo

di Simonetta Bartolini Spartaco Pupo

’università italiana è afflitta da mali purtroppo assai noti, come il familismo baronale, la corruzione nei concorsi e l’accesso alla carriera accademica che non sempre avviene secondo merito ma per effetto di un complicato meccanismo di selezione basato sull’appartenenza a corporazioni di tipo ideologico-politico, territoriali e disciplinari.

Questi e altri fenomeni sono risultati sino ad oggi determinanti nella scelta dei giovani studiosi italiani di trasferirsi all’estero per realizzare le loro legittime ambizioni accademiche. Ma la fatidica fuga di cervelli è dipesa anche dal fatto che in Italia si è da tempo smesso di credere nell’alto valore strategico della formazione universitaria e della ricerca..

I risultati delle politiche dei governi che si sono succeduti nell’ultimo ventennio sono tutt’altro che lusinghieri: una drastica riduzione delle immatricolazioni; una percentuale di laureati sul totale della popolazione tra le più basse d’Europa; una classe docente anziana e demotivata che laddove riesce a formare giovani preparati lo fa a beneficio della società inglese, francese, europea in generale e persino cinese, dove alle nostri menti migliori l’inserimento professionale è reso molto più agevole che in Italia.

È pertanto auspicabile una seria discussione pubblica sul futuro dell’università italiana che non prescinda dalla rivisitazione immediata, seppure a costo zero data l’esiguità delle risorse in campo, delle più evidenti contraddizioni dell’attuale sistema.

La prima riguarda certamente l’Anvur, organismo che, pur rispondendo alla raccomandazione europea di adeguamento ad un comune criterio di assicurazione di qualità negli studi superiori, ha comportato nell’impianto italiano una elefantiaca burocratizzazione del sistema universitario e un conseguente slittamento del ruolo del docente. Il tempo che viene richiesto ai docenti di dedicarsi alle attività di espletamento dei processi burocratici ha sistematicamente eroso quello riservato tanto alla ricerca quanto alla docenza nel suo livello più alto, che è quello del trasferimento di saperi.

Infatti, poiché la valutazione (in base alla quale vengono erogati i fondi statali e si procede alla creazione di un ranking fra le migliori e peggiori università italiane) risulta determinante per la sopravvivenza degli atenei sia dal punto di vista economico e che reputazionale e poiché si è arrivati a considerare il lavoro di ricerca dei docenti poco produttivo (con qualche eccezione per alcuni centri di ricerca di eccellenza ma soprattutto in ambito scientifico) gli atenei hanno finito con il delegare l’espletamento di tali pratiche burocratiche proprio ai professori.

La valutazione della ricerca

Benché esista una valutazione della ricerca da parte dell’Anvur, è pur vero che il merito della stessa ha una importanza assai relativa rispetto alle pratiche formali. Il risultato ad oggi è un sistema universitario liceizzato, ovvero un sistema di formazione superiore nel quale l’importanza della qualità della ricerca è standardizzata verso il basso.

Il sistema di valutazione della ricerca prevede il calcolo delle mediane sia a livello concorsuale che di valutazione periodica della ricerca dei docenti attraverso un doppio sistema di valutazione: bibliometrico (per le facoltà scientifiche) e non bibliometrico (per quelle umanistiche). Nell’ambito della valutazione non bibliometrica, per tentare di conferirle un criterio univoco, è stata individuata la categoria “riviste scientifiche”, e al loro interno è stata introdotta la distinzione fra riviste di fascia A e altre.

Le riviste di fascia A dovrebbero rispondere ad un criterio di eccellenza individuato nel loro carattere internazionale, nella valutazione di revisione paritaria, ecc., dovrebbero cioè assicurare la pubblicazione di studi ritenuti eccellenti.

Il problema che pone questa distinzione è che in qualsiasi tipo di valutazione del docente si chiede al candidato un numero esiguo di contributi di studio se pubblicati su riviste di fascia A e un numero considerevolmente più alto (circa 3 o quattro volte numericamente superiore) se pubblicate in riviste non di classe A. Ciò pone una evidente contraddizione: se gli articoli pubblicati in riviste di fascia A sono, in quanto tali, pre-giudicati eccellenti, non si dovrebbe sottoporli ad una successiva valutazione delle commissioni giudicatrici dei concorsi, ponendosi il caso (accade abbastanza regolarmente) di un giudizio negativo da parte, ad esempio, della commissione dell’ASN (Abilitazione Scientifica Nazionale) dello stesso articolo che un pool di revisori specializzati ha accettato appunto come eccellente (cioè degno di essere pubblicato in rivista di classe A).

Tale contraddizione nasce dalla considerazione che la norma, in realtà, viene disattesa nella sua applicazione pratica.

Proliferano, oramai, le riviste che chiedono il pagamento, da parte dello studioso, per potere pubblicare in classe A, avendo formato delle commissioni di revisori compiacenti. Si tratta per lo più di iniziative di case editrici di varia qualità che hanno adempiuto ai criteri richiesti per pubblicare una rivista di classe A. Ugualmente l’accesso alla classe A è spesso garantito a chi faccia parte di una scuola universitaria influente, in grado cioè di garantire l’accesso a tale tipologia di rivista agli allievi che il professore, direttore della rivista o appartenente al comitato scientifico della stessa ha stabilito possano “fare carriera universitaria”, a prescindere dal merito effettivo degli stessi. Si viene così a creare una discriminazione duplice, grave soprattutto rispetto al merito e alla qualità. La nostra proposta consiste allora nell’abolizione delle riviste di fascia A, nell’introduzione di una valutazione più alta per le monografie (ovvero a quegli ampi ed elaborati studi che richiedono anche un paio di anni di lavoro) che attualmente, sia in sede di ASN sia in sede di valutazione periodica, è quasi irrilevante.

A 23 anni dalla sua introduzione, la riforma universitaria del 1999, il sistema del 3+2 (laurea triennale e laurea magistrale) mostra criticità evidenti. Tralasciando gli aspetti fallimentari rilevati da più parti negli anni in cui questa riforma è stata applicata (non ha aumentato il numero degli iscritti, non ha aumentato l’occupazione dei laureati, come dimostrano i dati Alma Laurea) si deve segnalare che tale riforma ha comportato un livellamento verso il basso nella formazione universitaria.

La possibilità di frequentare la laurea triennale – per acquisire una formazione scientifica/professionale di base che desse accesso al mondo del lavoro – oltre a non aver aperto le porte dell’occupazione ad un numero significativo di studenti e ad averli costretti ad un impegno formativo più lungo (3+2 contro i 4 precedenti con esclusione di un numero limitato di cds del vecchio ordinamento) ha comportato:

1) la licealizzazione del triennio con relativo abbassamento della qualità della formazione;

2) la diminuzione dell’impegno formativo degli studenti i quali ormai considerano la triennale un momento interlocutorio della loro formazione, poco impegnativo, una specie di traghetto necessario per il vero percorso formativo costituito dal corso di studio magistrale.

Di conseguenza (con le debite eccezioni) la maggioranza degli studenti arriva alla fine del percorso triennale con una formazione (documentata dal voto di laurea) assai bassa, non essendo richiesto per l’accesso alla magistrale un voto minimo.

A ciò si aggiunge la sostanziale genericità dei corsi di studio triennali dai quali – per quanto riguarda le macro-aree formative, e non solo – si può accedere a magistrali sostanzialmente diversi da quelli della triennale avendo nel proprio curriculum un numero abbastanza esiguo di esami fondamentali.

Posto che il sistema 3+2 è difficilmente scardinabile e che per ridisegnarne i contorni e renderli attuabili occorrerebbe un lungo e complesso impegno riformista (ovviamente auspicabile ma che comporterebbe costi non trascurabili), sarebbe opportuno introdurre immediatamente un voto minimo di laurea triennale per permettere l’accesso al cds magistrale (non meno di 108/110). Questo sarebbe in linea con l’ottima proposta (ma non a costo zero perché richiederebbe l’immissione in ruolo di un certo numero di docenti) di eliminare il test d’ingresso a Medicina, rimandando la selezione agli esami del primo anno, opportunamente disegnati. In tal modo gli studenti sarebbero costretti a impegnarsi seriamente nel percorso triennale e dunque acquisire una formazione migliore che non comprometta di fatto, se non de iure, l’eccellenza richiesta nel percorso magistrale.

Per quanto riguarda le caratteristiche del percorso triennale, la genericità ormai diffusa, che non significa acquisizione di una cultura scientifica di base, tale da permettere la formazione specifica seguente, potrebbe essere cambiata in due modi:

1) Invertire la numerosità degli anni ovvero passare dal 3+2 al 2+3 se si lascia invariata la genericità formativa del primo ciclo. In questo caso formulare tali cds biennali secondo due o tre linee guida essenziali, relative alle macro-aree di formazione (scientifica - e al suo interno con una ulteriore suddivisione fra due aree specifiche - e umanistica) tali fa fornire allo studente una solida preparazione (per esempio con lo studio delle lingue, della letteratura, della storia, della filosofia, della storia dell’arte, della linguistica ecc. per i cds magistrali umanistici, e della matematica, della fisica, ecc. per una parte specifica di cds scientifici e delle discipline economiche, giuridiche ecc. per l’altra area scientifica). Certamente ciò ridurrebbe la formazione professionale che permettesse con il solo primo ciclo l’accesso al mondo del lavoro, ma è anche vero che i dati ci dicono che l’occupabilità dei laureati triennali non è tale da essere significativa.

2) Rendere i percorsi triennali tradizionali più specialistici, limitando in maniera drastica (ovvero considerandole eccezioni da applicare in pochi selezionatissimi casi di eccellenza) il passaggio da un’area formativa all’altra.

Diritto allo studio-occupabilità

In ultimo, ma non per ultima, rimane la questione del diritto allo studio-occupabilità.

Posto che indubitabilmente la cultura scientifica in Italia registra tassi di interesse da parte degli studenti non eccellenti e che dunque dovrebbe essere sicuramente incrementata (non abbassando il livello di tali studi, ma elevando la formazione nelle scuole medie superiori), resta un dato di fatto che l’unica eccellenza che l’Italia può vantare nel ranking mondiale degli atenei è detenuto dalla Sapienza per gli studi sull’antichità, seguita dalla Normale di Pisa per lo stesso settore.

Sarebbe dunque forse il caso di rassegnarsi al fatto che l’Italia eccelle negli studi umanistici e dunque, senza trascurare gli altri, puntare su di essi per creare eccellenze che non solo elevino gli atenei italiani nelle graduatorie internazionali, ma attirino in Italia studenti dall’estero. Ciò è realizzabile se si creano condizioni di occupabilità significative relative al nostro patrimonio culturale.

Un esempio fra tutti è quello relativo alla digitalizzazione del nostro immenso patrimonio archivistico, documentario e museale (che vede il nostro Paese fanalino di coda rispetto al resto del mondo). In linea con le richieste europee di promuovere la digitalizzazione ovvero l’applicazione delle discipline informatiche, si dovrebbe prevedere (questo non è a costo zero, ma creerebbe molti posti di lavoro e richiederebbe un tempo di applicazione medio e quindi i costi potrebbero essere spalmati nel tempo) un sostanzioso finanziamento (anche da parte dei privati con relativa defiscalizzazione e/o sconto fiscale) per la digitalizzazione del nostro patrimonio culturale. In tal modo potendo offrire ai laureati uno sbocco professionale adeguato: 1) si renderebbero più appetibili le facoltà umanistiche, ma anche quelle informatiche; 2) si coniugherebbe sapere scientifico (in questo caso informatico) e umanistico; 3) si creerebbero sinergie interessanti che finirebbero per incrementare anche quello scarso interesse per gli studi matematico-scientifici di cui siamo carenti.

Il nostro auspicio è che si riporti finalmente competenza nelle aule, intelligenza, piuttosto che mera istruzione, nell’apparato burocratico-amministrativo, responsabilità delle regole, piuttosto che trasgressione delle stesse e, soprattutto, si immettano giovani preparati e creativi nel mondo delle professioni e del lavoro.

Simonetta Bartolini (professore ordinario- Università Internazionale di Roma)

Spartaco Pupo (professore associato- Università della Calabria)

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