Musica della Scapigliatura.

Mefistofele vince la sua scommessa. Il capolavoro di Boito trionfa a Modena e Piacenza.

Una pregevole edizione coprodotta dal Teatro Pavarotti- Freni di Modena e dal Municipale di Piacenza.

di Domenico Del Nero

Mefistofele vince la sua scommessa. Il capolavoro di Boito trionfa a Modena e Piacenza.

Fin dalla sua nascita, Mefistofele è un’opera profondamente “divisiva”: basti pensare che la prima rappresentazione, il 5 marzo 1868, fu uno dei più tremendi e rovinosi fiaschi della storia del teatro alla Scala (quasi sicuramente organizzato) e la tensione era talmente alta che si disse che Arrigo Boito, librettista, compositore e direttore d’orchestra del nuovo lavoro, fosse andato a teatro con una pistola in tasca. Non era vero, ma rende bene l’idea del clima …

Sette anni dopo però, al Comunale di Bologna, la rivincita: profondamente rivisto e abbreviato, Mefistofele iniziò un cammino trionfale che sostanzialmente non si è mai interrotto sino ad oggi. E se è vero che negli ultimi decenni le rappresentazioni del capolavoro boitiano si sono piuttosto e purtroppo diradate, le reazioni che ogni ripresa suscita restano più o meno le stesse: entusiasmo del pubblico e bruciori di stomaco di buona parte di critici e recensori, che spesso e volentieri non sanno neppure di cosa stanno parlando; come ad esempio chi lo definisce un grand-opera, genere con cui al massimo può esserci una somiglianza molto superficiale…

Negli ultimi anni tuttavia il capolavoro di Arrigo Boito (1842-1918), massimo esponente della Scapigliatura e figura straordinaria e pressochè unica di poeta- scrittore – musicista, ha ripreso una certa circolazione, non solo in teatri come Parma (2014) e Roma, in cui è in programma il prossimo anno, ma anche in teatri di tradizione; proprio in questi giorni è andata in scena una edizione molto interessante e di ottimo livello, una coproduzione dei teatri Pavarotti-Freni di Modena e Municipale di Piacenza, per un totale di quattro rappresentazioni conclusesi trionfalmente domenica scorsa 16 ottobre.

“Mi ha sempre colpito una cosa di Mefistofele: opera adorata dal pubblico, detestata o snobbata dai critici musicali, alcuni di quali non esitano a definirla un baraccone. Io sono schierato dalla parte del pubblico, che poi è l’unico vero destinatario di un’opera d’Arte. Staremmo freschi se a teatro fossero presenti i soli critici”. Basterebbero queste parole per essere profondamente riconoscenti al regista Enrico Stinchelli, che ha curato brillantemente anche le scene e i costumi; inutile dire che qualche recensore non ha gradito e ha accusato la sua lettura di banalità e superficialità; sicuramente Margherita che si dà da fare col ferro da stiro, come si vide in una edizione di ormai alcuni decenni or sono, è più “originale”, ma molto probabilmente se Boito avesse potuto vedere cotanta “originalità”, avrebbe mandato una bella sfida a duello al regista.

Una cosa che colpisce infatti dell’edizione di Modena e Piacenza è il grande, profondo, assoluto rispetto per quest’opera e il suo autore, che regista e direttore d’orchestra, il bravissimo Francesco Pasqualetti, dimostrano di conoscere a fondo. A partire da un elemento fondamentale: più che un grand-opera, Mefistofele è in realtà un vero e proprio Gesamtkunstwerk, modellato sull’antica tragedia greca. Chiunque conosca Boito sa bene che era questo il suo obiettivo, che egli del resto esplicitò, tra lazzi e schiamazzi della provincialissima e meschina neonata Italietta, in vari articoli e scritti teorici che purtroppo non pensò mai di riunire in volume. E questo – tralasciando qui la spinosa questione del rapporto, di debiti reali o supposti con l’odiato amato Wagner, il sinfonismo tedesco etc. etc. – significava sostanzialmente la profonda, totale compenetrazione dei linguaggi artistici di musica, poesia e scenografia: le “Correspondances” di baudelariana memoria, e del resto Boito era cultore e ammiratore del grande maledetto francese.

Stinchelli sa benissimo che Boito aveva costruito delle note di regia di grande precisione e minuziosità, che del resto sono ormai oggi state ampiamente studiate e pubblicate; e pertanto muove da una considerazione di fondo: rispetto per le intenzioni dell’autore, che concepisce per l’appunto la regia non come una sorta di “sovrastruttura” ma come parte integrante della concezione artistica. Questo poi non significa certo non potersi ritagliare una certa libertà di movimento, che però non passa certi limiti e non stride affatto con quanto sopra. La tecnologia al servizio della tradizione: attraverso il gioco di luci e video curato da Angelo Sgalambro. Molto suggestiva la lettura del Prologo, e soprattutto del preludio strumentale, visto come allusione  alla creazione, dal fiat lux ad Adamo ed Eva, interpretando lo squillo delle sette trombe e i sette tuoni che l’autore stesso indica in una didascalia iniziale come appunto un’allusione all’opera divina; ma anche allusione forse, a quel concetto di “visione” che Boito, profondamente innamorato e per certi aspetti emulo (uno dei primi in epoca moderna, se non il primo in assoluto) di Dante, associava all’opera d’arte; la chiassosa “domenica di Pasqua” che trapassa poi nello studio di Faust, con la suggestiva conclusione del volo sul mantello del diavolo; un sabba infernale che non evoca discoteche o altri luoghi similari, ma veramente gli “spaventosi culmini del Broken”, con l’ottima trovata di un folletto che scorre “veloce leggero” sul video, mentre nei momenti culminanti del delirio infernale vengono proiettati sullo sfondo i “capolavori del male” dell’umanità, dai campi di concentramento al fungo atomico. E per una volta, possiamo ascoltare i cantanti senza chiederci cosa c’entra quello che stanno dicendo con quel che stiamo vedendo.

Poi certo, volendo si può trovare anche qualche punto debole, come movimenti non sempre fluidi e a volte un po’ impacciati delle masse presenti sulla scena e dei balletti con la coreografia di Michele Merola  (ma bisogna anche considerare la monumentalità dell’opera e la difficoltà a muoversi su un palcoscenico non particolarmente vasto), lo scavo psicologico non sempre perfetto dei personaggi etc; ma tutto questo (su cui già altri hanno abbondantemente e dottamente dissertato) non inficia affatto il pregio di una lettura che si muove in ottima sintonia con la componente musicale.

E a questo proposito, non si può che evidenziare l’ottimo livello sia della parte strumentale che di quella vocale. Accurata, attenta al dettaglio, ora grandiosa ora squisitamente lirica, l’interpretazione di Francesco Pasqualetti, che si muove sulla linea di  Muti e quindi di una lettura che esalti soprattutto, anche sul piano strumentale, la straordinaria complessità e modernità della partitura boitiana:  Così il sublime Prologo in cielo è eseguito nella  sua struttura ”sinfonica” in quattro tempi esattamente come lo ha concepito l’autore: “ per quell’ossequio alla forma, del quale non si deve mai spogliare niuno che tratti il presente soggetto, abbiamo dato a questo Prologo in cielo la linea della sinfonia classica in quattro tempi, aggiungendovi l’elemento corale”.  Pasqualetti presta la massima attenzione al rapporto  al rapporto tra le parti strumentale e vocale: il canto delle falangi celesti sembra quasi “trascolorare” nello strumentale, mentre la solenne sacralità delle voci a cappella dei cori angelici si contrappone perfettamente allo scherzo con i suoi pizzicati ed il suono aspro dei legni, che denunciano il carattere fondamentale di Mefistofele: la beffarda ironia. Molto efficace e coinvolgente anche la fuga infernale che conclude il primo sabba, con le sue dissonanze aspre e straordinariamente moderne.  Boito aveva l’ambizione di estrarre da ogni parola il “suo” suono musicale e questo sarà il motivo fondamentale per cui si arrovellerà sul Nerone per quasi mezzo secolo. Pasqualetti legge Boito come chi creda nel valore dì un capolavoro, trasmettendone echi, suggestioni e soprattutto emozioni a un pubblico che ha saputo pienamente apprezzarle.  Nel programma di sala definisce il Mefistofele, con espressione arguta e appropriata, il “Kolossal della Scapigliatura”; ma è un kolossal di grande pregio e tutt’altro che di consumo grazia anche a letture come queste, che lo restituiscono veramente nel suo unico e inimitabile valore.

Di ottimo livello anche il cast vocale, a partire dal basso coreano Simon Lim: una bella voce corposa e di grande volume, ottima coloratura, disinvolto negli acuti e suggestivo dei gravi. Unica pecca la recitazione; se in passato infatti alcuni interpreti hanno senz’altro ecceduto in “istrionismo”, Lim forse lo fa in compostezza, che non è precisamente una caratteristica … diabolica!  Il tenore Antonio Poli si rivela un Faust notevole per timbro e potenza di emissione, ora veemente ora morbido ed appassionato. Se sul piano scenico non appare inizialmente molto disinvolto, sembra prendere progressivamente maggiore disinvoltura per arrivare nel finale, con la splendida e suggestiva Giunto sul passo estremo, a una ottima interpretazione sia attoriale (la conversione di Faust è resa con pathos sofferto e sincero) che vocale.

Bravissima infine Marta Mari nel duplice ruolo di Margherita e di Elena; alla prima dà un particolare tocco di pathos e intensità nella “scena della pazzia” (l’altra notte in fondo al mare), alla seconda di sensualità nel duetto Amore misterio. La Mari, soprano lirico dotato dalla voce ricca e piena e abile nella coloratura riesce a differenziare i due personaggi femminili sia sul piano vocale che su quello scenico, con una prova di ottimo livello.

Buoneinfine anche le parti minori: Il Wagner di Paolo Lardizzone, il Pantalis di Shay Bloch, il Nerèo di Vincenzo Tremante. Entusiasta il pubblico che ha applaudito con grande entusiasmo, mentre negli intervalli si sentiva spesso dire  ma perché non la danno più spesso quest’opera?

Speriamo che chi di dovere ne tenga conto.

 

La recensione si riferisce all’ultima replica di domenica 16 ottobre.

 

 

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    2 commenti per questo articolo

  • Inserito da FrancescaCoppola il 12/12/2022 23:34:02

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