Il Toscanaccio

L’importanza di chiamarsi Arturo

Cercò per tutta la vita di risolvere la quadratura del cerchio, seduto a un tavolino del caffè “Giubbe Rosse”

di Angelo Iacovella

L’importanza di chiamarsi Arturo

Arturo Reghini

Arturo Reghini nacque a Firenze, il 12 novembre del 1878 e del “toscanaccio” aveva tutti i vizi e le virtù: un’intelligenza vivida e vivace, una certa ipertrofia dell’ego e l’inquietudine di chi cerca risposte univoche all’indecifrabilità del molteplice. La matematica fu il suo mestiere, ma più di tutto lo attirò la tentazione dell’occultismo. Partecipò, è vero, alla fondazione della sezione italiana della Società Teosofica, ma non tardò a staccarsene, in polemica con l’intollerabile sciocchezzaio misticheggiante propalato dai suoi banditori.

Nel 1902, in quel di Palermo, bussò alle porte di una loggia massonica di rito egizio, alla ricerca della prisca sapienza italica nascosta dietro il velo di Iside. A Firenze, più tardi, assunse la direzione della Biblioteca Filosofica, una specie di cenacolo orfico-pitagorico, che attirò nella sua orbita intellettuali irregolari come Amendola e Assagioli, Papini e Prezzolini.

Cercò per tutta la vita di risolvere la quadratura del cerchio, seduto a un tavolino del caffè “Giubbe Rosse”, donde si levavano i vagiti del primo futurismo, cosa che gli valse il soprannome di “metafisico Arturo”.

In quella temperie avanguardista senza precedenti, si fece notare per la verve polemica e biliosa di certi suoi interventi sulle pagine di Lacerba o de La Voce, nonché per le sue accese prese di posizione politica, sconfinanti nella rivalutazione dell’imperialismo romano e del paganesimo.

Durante il ventennio, pur coltivando l’idea di una Roma immortale, si costrinse, dopo il Concordato, a una sorta di meta-fascismo impregnato di aristocratico disprezzo delle masse. 

Nell’ultimo scorcio della seconda guerra mondiale, mentre le formazioni aeree alleate sorvolavano il giardino della sua villa di Budrio, in provincia di Bologna, sganciando bombe, rimaneva ore e ore impassibile al suo tavolo di lavoro.

Lì si spense, nel 1946, senza lasciare eredi.

Una lapide, nel locale cimitero, lo ricorda così:


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