Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Tomaso Montanari , "il Fatto Quotidiano", 11 ottobre 2012
Quando parlo con i miei colleghi universitari francesi o americani dei ‘tagli alla cultura' italiani, la domanda più ricorrente è: "Cosa hanno chiuso?". E qui la faccenda si fa particolarmente penosa, perché si tratta di spiegare loro che l'ipocrisia italica non permette quasi mai di sopprimere davvero qualcosa - sarebbe quasi meglio, paradossalmente -, ma costringe tutti a vivere largamente al di sotto della soglia minima di dignità. Non si chiudono i musei: no, ma nei bagni non c'è la carta igienica, dai soffitti piove sui quadri, le sale sono aperte a rotazione. E il direttore degli Uffizi guadagna 1.800 euro al mese (contro gli 8.100 dello stipendio base di Franco Fiorito).
Non si sopprimono le soprintendenze: ma i pochi storici dell'arte e gli archeologi rimasti in servizio in organici ridotti all'osso, non possono usare la macchina di servizio (né farsi rimborsare la benzina o le spese del telefono) nemmeno per fare i sopralluoghi sui monumenti colpiti dal terremoto.
E i carabinieri del Nucleo di tutela non possono pagarsi i viaggi per le rogatorie internazionali che consentono di recuperare le opere o i libri rubati. Non si chiudono gli archivi o le biblioteche: ma se si guastano i montacarichi che servono a distribuire il pesante materiale cartaceo, non è possibile consegnare i pezzi agli studiosi. E d'inverno non si può accendere il riscaldamento, né d'estate l'aria condizionata: d'altra parte, lo studio non deve forse essere matto e disperatissimo?
Non si eliminano gli enti culturali: ma la prestigiosissima Scuola Archeologica Italiana di Atene è decimata nel personale, ed è costretta da anni a una indecorosa economia di guerra; l'Accademia della Crusca si aggira ogni anno col cappello in mano; la Società di Storia Patria di Napoli (che possiede la più importante biblioteca sul Meridione ) è sull'orlo del fallimento.
Non si chiudono le scuole, ma non ci possiamo permettere gli insegnanti di sostegno, la carta (di qualunque tipo) si porta da casa, e gli autobus per portare i bambini a conoscere le loro città non esistono quasi più. Non si ha il coraggio di dire che l'università italiana non deve più fare ricerca (per trasformarsi anche ufficialmente in un esamificio e in un concorsificio truccato), ma l'ultimo finanziamento per la ricerca che la mia università mi ha erogato ammonta a 600 euro annui
E l'ho ceduto, come altri colleghi, al dipartimento: in una sorta di colletta che potesse portare ad avere qualche assegno di ricerca per non far scappare all'estero proprio tutti i giovani studiosi più meritevoli. A questo punto del discorso, qualcuno tira invariabilmente fuori un argomento in apparenza definitivo: "Non ci sono soldi". Ma il mantra del "non ci sono soldi" era già difficile da sostenere prima, visto che nel Paese con l'evasione fiscale più grande dell'Occidente è un po' dura pensare davvero che ‘non ci siano soldi': il problema, semmai, è il fatto che preferiamo lasciare quei soldi nella disponibilità dei privati.
Gli stessi privati a cui, poi, chiediamo l'elemosina della beneficenza. Una beneficenza che non è a costo zero, visto che - per quanto riguarda, per esempio il patrimonio culturale - si traduce in iniziative contrarie alla funzione costituzionale del patrimonio stesso, che è quella di produrre conoscenza e cultura, e attraverso di esse, eguaglianza e cittadinanza. Questi ‘rimedi' alla mancanza di denaro pubblico sono infatti tutti all'insegna del mercato, e producono non cittadini, ma clienti: grandi mostre di cassetta, prestiti forsennati di opere delicatissime, iperrestauri a rotta di collo, cessioni di sovranità pubblica a sponsor privati che ‘marchiano' i monumenti e molto altro ancora.
Del resto, l'opzione alternativa è spesso ancora peggiore: non ci sono soldi, dunque che il patrimonio vada pure in rovina. Ma ora - dopo le feste in costume romano della Regione Lazio, dopo la notizia che il Ponte sullo Stretto ci è costato 300 milioni di euro solo per non esistere, dopo che si apprende che agli incliti consiglieri regionali campani viene distribuito un milione l'anno -, beh, ora è un po' difficile pensare che il problema sia davvero che i soldi non ci siano.
Semmai, il punto è cosa vogliamo farne, di questi benedetti soldi pubblici. Ma niente paura: quando avremo definitivamente perduto Pompei, potremo sempre nascondere la nostra vergogna sotto una maschera. Naturalmente, una maschera da maiale.
L'aziendalizzazione della cultura invece di trasformarla in un patrimonio produttivo la sta uccidendo, consoliamoci: i nostri studenti all'università non imparano niente, i professori dovrebbero solo fare esami e attività amministrative, la ricerca é superflua, quindi fra poco nessuno sará più in grado di apprezzare alcunché e potremo tranquillamente sostituire gli originali di ogni genere con copie di plastica magari usa e getta (non sia mai che durino millenni come gli originali andrebbero mantenute, e l'industria come vivrebbe ?
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