Comitato direttivo
Giovanni F. Accolla, Franco Cardini, Domenico Del Nero, Giordano Bruno Guerri, Gennaro Malgieri, Gennaro Sangiuliano, Mirella Serri, Marcello Veneziani.
Carnevale di Sartiglia
Siamo nel cuore del Carnevale, che è cominciato ufficialmente il 17 gennaio, Festa di sant’Antonio abate, e dura fino alla mezzanotte del Martedì Grasso nel rito Romano e alla mezzanotte del sabato successivo in quello Ambrosiano. Oggi infatti è Giovedì Grasso, che in Toscana è chiamato “Berlingaccio”, sinonimo di persona grassa, allegra, in carne. Ebbene, nonostante il Carnevale abbia perso il suo significato originale come momento di passaggio dalle tenebre dell’inverno alla luce primaverile, da oggi e fino al 12 del mese, Martedì Grasso, ci sono in giro per l’Italia centinaia di feste carnascialesche, alcune bellissime, che hanno conservato in gran parte gli ancestrali e rituali simboli carnascialeschi.
Fra gli elementi tipici del Carnevale ci sono le maschere, che simboleggiano le immagini degli esseri inferi. Le troviamo in tutto il loro significato d’oltretomba nella “Mascarade” del Gran San Bernardo, in Val d’Aosta: per le strade dei paesini della fredda e stretta valle s’incontrano in questi ultimi giorni di Carnevale, le “Patoilles”, che sono brigate di maschere dal volto annerito dalla fuliggine, che fanno scherzi di ogni genere. Ebbene, come sottolinea Alfredo Cattabiani nel suo “Lunario” (Mondadori), quelle maschere brune, rappresentano le anime dei morti che escono dall’aldilà per confondersi con i vivi e propiziare la primavera con l’arrivo del sole, favorendo un buon raccolto.
Lo stesso significato infero hanno i “Mamuthones” di Mamoiada, nel nuorese, il cui nome deriva da “Maimone”, il diavolo per eccellenza in Sardegna. Il Martedì Grasso, annunciati dal ritmico frastuono dei campanacci, i “Mamuthones” entrano con passo cadenzato nella piazza del Comune: vestiti di pelli cariche di campanacci, il viso coperto da una infera maschera tragica, sembrerebbe quasi un esercito di vinti che è tenuto a bada da altri esseri in giacca rossa e con in mano le funi della prigionia.
Quest’ultimi sono gli “Issicadores”, una parola che deriva da “sa soca”, dallo spagnolo “soga”, e cioè “fune”: gli “Issicadores” hanno probabilmente qualche legame con i “Luperci” romani che proprio alla metà di febbraio, correndo intorno al Palatino, battevano con fruste di pelle di capra le donne che incontravano, per purificarle e renderle fertili.
D’altronde, spiega Cattabiani, il Carnevale con tutta la sua ritualità non sarebbe altro che una reinterpretazione cristiana di una tipica festa pagana di passaggio da un periodo dell’anno all’altro, come accadeva nei “Saturnalia” romani, nelle feste bacchiche greche, oppure nelle feste dell’equinozio primaverili che c’erano nell’antica Babilonia.
Ma torniamo in Sardegna, dove il Carnevale ha ancora caratteristiche particolari che risalgono a riti ancestrali, come appunto quello di Mamoiada. Fin dal primo pomeriggio del Martedì Grasso, dunque, si aprono le danze tradizionali a cerchio, accompagnate dal suono della fisarmonica. Chi non è in lutto partecipa al ballo comune: nessuno può rifiutare il braccio a chi gli capita vicino, fosse pure un nemico giurato, perché una regola non scritta lo vieta senza eccezioni.
All’arrivo dei Mamuthones tace la musica della fisarmonica mentre s’interrompono le danze. L’attenzione è tutta per loro, i prigionieri in maschera che trascinano il grave fardello sotto l’incubo dei custodi vestiti di rosso. Dopo questo momento di grande drammaticità gli “Issicadores” portano una ventata di festosi scherzi catturando qualche ignaro spettatore con i lacci mentre riprendono le danze.
Invece ad Oristano, l’ultima domenica di Carnevale e il Martedì Grasso, si svolge una inquietante “giostra” carnascialesca, detta “Sa sartiglia” che ha come protagonista principale la tipica maschera del luogo: il cosiddetto “Androgino”.
“Sa sartiglia”, il cui nome deriverebbe da “sortija”, anello in castigliano, risale infatti all’epoca della dominazione spagnola in Sardegna. Si tratta infatti di una giostra dove i cavalieri, lanciati al galoppo, devono infilare con la lancia un anello a forma di stella, sospeso a una fune. L’Androgino è impersonato dal “Componidori”, un giovane cavaliere scelto dopo una severa selezione dal Gremio – la confraternita - che raggruppa le associazioni di mestieri cui spetta l’organizzazione della giostra.
Verso mezzogiorno il “Componidori” viene condotto in un luogo addobbato con rami, foglie e fiori, chiuso nella parte retrostante e aperto sul davanti, quasi ad evocare una caverna. In quella simbolica grotta-utero viene affidato alle cure di alcune fanciulle, “is massaieddas”, guidate da una donna più matura, “sa massaia manna”, la grande massaia. Queste donne, come fossero le sacerdotesse della Grande Madre, lo faranno sedere su una sedia posta sopra un tavolo.
Da quel momento il “Componidori” non dovrà più toccare il suolo con i piedi. L’isolamento dalla terra, scrive Alfredo CAttabiani, ha lo scopo d’impedire che l’energia acquistata dal giovane dopo il rito di vestizione possa disperdersi a contatto con la terra: “come si può scaricare l’elettricità della bottiglia di Leyda, per contatto con un buon conduttore”, osservava J. G. Frazer, “così si può scaricare la santità o la virtù magica dell’uomo nel contatto con la terra”.
E poi inizia la vestizione dell’Androgino, che è un rito importante come quello successivo della Corsa; e perciò ogni gesto viene compiuto con grande solennità. Le “massaieddas” fanno indossare al giovane, che conserva i suoi maschili stivali e i pantaloni di fustagno, una candida camicia cui vengono aggiunti, alla presenza della folla, nastri colorati in modo da farla assomigliare al corsetto di un abito da sposa: in assoluto silenzio, quelle le donne-vestali, gli cuciono addosso la camicia che è senza bottoni.
A continuazione tocca al viso, che viene completamente avvolto da bende sulle quali la “massaia manna” pone una maschera dall’ambiguo volto di donna. Per completare la figura androgina le si colloca sul capo un velo da sposa, che scende fino alle spalle, e su di esso un cilindro nero che probabilmente avrà sostituito, durante l’occupazione spagnola, il tipico copricapo rosso degli uomini sardi.
Terminata la vestizione, l’Androgino, maschio nella parte inferiore del corpo, femmina in quella superiore, viene trasferito a braccio sul cavallo su cui lo si adagia riverso sul dorso; e in quella scomoda posizione dovrà restare fino a quando non uscirà all’aperto: sarà allora quando gli consegneranno un mazzo di violette e pervinche detto “Sa Pippìa de Maiu”, la Bambina di Maggio, con il quale, tracciando segni di croce, benedirà la folla che a sua volta gli lancerà grano e fiori. Il misterioso nome di quel mazzo fiorito significa in diverse zone della Sardegna, l’organo genitale sia femminile che maschile.
Durante tutta la cerimonia rintoccano le campane e squillano le trombe insieme con le “launeddas”, l’antico strumento a fiato sardo, mentre i tamburi rullano accompagnando gli spostamenti dell’Androgino cavaliere.
A questo punto comincerà l'evento centrale della festa: il “Componidori” insieme con gli altri cavalieri in costume che portano anch’essi sul volto maschere femminili, ma hanno abiti maschili, si avvia in corteo fino al luogo della corsa dove si lancerà al galoppo per una stretta viuzza medievale, ricoperta di terriccio. Mentre galopperà fra le strette curve della via dovrà cercare di infilzare il minuscolo foro della stella, “sa sartiglia”, appunto, appesa a un filo a metà della strada.
Dall’esito positivo e negativo di questa prova iniziatica dipenderà la fertilità dei campi per la nuova stagione agricola. Gli altri cavalieri lo seguiranno nel tentativo di infilzare la stella, ma il loro successo non avrà alcun effetto sul nuovo anno, sarà considerato semplicemente una prova di destrezza.
«Soltanto questa epifania simbolica del dio “sive mas sive foemina” sarà capace di fecondare la Madre Terra», scrive Cattabiani, soggiungendo: «Ma si tratta soltanto di un rito di fecondazione oppure la corsa sfrenata dei cavalli simboleggia, come in altri carnevali, il passaggio degli astri sulla volta celeste?».
Finita la seconda parte del rito, il corteo si reca in una zona periferica dove si trovava un tempo la cinta muraria della città, testimoniata ancora oggi da due torri di guardia, per compiere una serie di esibizioni tanto spettacolari quanto temerarie in quello che una volta era il fossato che circondava le mura: coppie di tre o quattro cavalieri che corrono affiancati compiono acrobazie con cavalieri in groppa a un altro, oppure in piedi sul cavallo tra lo squillo delle trombe e il rullio dei tamburi.
Al tramonto, ad un cenno del “Componidori”, s’interrompono i giochi equestri mentre si riforma il corteo che conduce fino al luogo della vestizione, fra pochi intimi, dell’Androgino, il quale benedice nuovamente con la “Pippìa de Maiu” la folla che risponde con il rituale augurio: “Atterus annus mellus”, e cioè, “migliore per altri anni”.
Nel ricordo dei presenti rimarrà la misteriosa quanto ambigua figura dell’Androgino, e gli spericolati giochi equestri intorno al tracciato delle antiche mura che, una volta, avevano la funzione di fortificarne il tracciato, di creare un cerchio magico intorno ad esse: una ricordo del “Ludus Troiae”, citato da Virgilio, che Augusto fece istituire in memoria dei mitici giochi che Ascanio fece celebrare quando recinse le mura di Albalonga.
Non maschere diaboliche bensì un grasso e divertito Gnocco sarà il protagonista indiscusso a Verona nel “Bacanal del Gnoco”, il Baccanale del Gnocco, detto anche “Venerdì gnocolar” perché si celebra l’ultimo venerdì di Carnevale.
Ogni anno a Verona viene eletto il “Papà del Gnoco”, il re del Carnevale, tra i popolani di San Zeno, patrono della città: si tratta di un personaggio pantagruelico, vestito di bianco e con una pancia finta piena di gnocchi. Tiene in mano un “piron”, una forchetta con un enorme gnocco. Il “Papà del gnoco” sfila accompagnato dai suoi paggi in un corteo di carri allegorici. Al corteo partecipano altri personaggi fra cui il “Duca della Pignatta” che distribuisce alla folla i doni della sua famosa pignatta.
Nella piazza dove sorge la chiesa dedicata al santo patrono di Verona si distribuiscono poi gnocchi e vino a volontà. In quella piazza c’è un grande tavolo di pietra dove una volta, all’ultimo venerdì di Carnevale, che si chiamava originariamente il “Venerdì casolar”, venivano invitati dodici poveri della parrocchia che erano serviti dall’abate e dai signori. Ebbene, vicino a questo tavolo si trova un’edicola di marmo dedicata a Tomaso da Vico che secondo la leggenda fu il primo “Papà del Gnoco” nel 1531.
Si racconta che, a causa delle inondazioni dell'Adige, la carestia aveva colpito Verona. Le autorità cercarono di mitigarla imponendo un prezzo calmierato sul pane. Ma i panettieri piuttosto di vendere il prodotto del loro lavoro a un prezzo ritenuto iniquo preferirono imboscarlo. Fu così che proprio nel quartiere di San Zeno il popolo si ribellò assaltando forni alla ricerca di pane. Le cose stavano volgendo al peggio quando un medico veronese, Tomaso da Vico, organizzò una distribuzione di cibo al popolo affamato e siccome non c’era una cucina sufficiente per allestire un pranzo per tanta gente ebbe l’idea di alzare bracieri sulla piazza e far preparare il cibo più facile e gustoso: gli gnocchi. Quella mangiata pantagruelica si ripeté poi ogni anno a Carnevale, diventando poi “El bacanal del Gnoco”.
Infine, da non perdere, un Carnevale unico in Italia, ma anche in Europa, è quello che si svolge a Ivrea, in Piemonte, con la tipica “Battaglia delle arance” della Domenica. Ma il rituale completo inizia la mattina quando dal Ponte Vecchio il Podestà getta nel fiume Dora una pietra del Castellazzo, il castello che venne distrutto nel medioevo segnando la fine del dominio dei feudatari legati all'Imperatore. Quella pietra viene gettata a spregio e monito per i tiranni antichi e futuri.
Nel pomeriggio si svolge invece il corteo che ha al suo centro la “Bella Mugnaia”, una maschera nata a metà dell’Ottocento da un leggenda. Si narra che il feudatario Ranieri di Biandrate pretendeva di esercitare lo “ius primae noctis” con Violetta, figlia di un mugnaio, nel giorno delle sue nozze. Ma Violetta, estratto un pugnale, colpì a morte il feudatario dando il via alla rivolta della popolazione che scese in piazza liberandosi in battaglia degli odiosi oppressori.
Durante il corteo si svolge anche la celebre “Battaglia delle arance” che si dice ricordi quella rivolta di popolo, mentre in realtà deriva da una battaglia carnevalesca che avveniva fra due rioni della città spesso con conseguenze tragiche. La Battaglia vede impegnati gli equipaggi dei carri e le squadre degli “arancieri” a piedi costituite da centinaia di tiratori.
Si gettano arance per 3.600 quintali! Se gli spettatori non vogliono essere coinvolti nella battaglia devono portare sul capo il rosso berretto frigio, in ricordo delle rivoluzioni dell’Ottocento.
La Battaglia, ma in tono minore, si ripete il Martedì Grasso; ma in quel giorno vi è sulle piazze un’antichissima cerimonia: “l’Abbruciamento degli Scarli”, lunghi pali di erica cui viene dato fuoco alla fine del Carnevale. Fuoco purificatorio e nello stesso tempo annunciatore del nuovo sole primaverile.
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