UNA PATRIOTA NELL’HAREM

Le incredibili avventure di Cristina di Belgioioso, una donna coraggiosa in Asia Minore e in Siria nel1800

Esce la prima traduzione in italiano dall’edizione completa in francese curata da Francesca Allegri

di Francesca Allegri

Le incredibili avventure di Cristina di Belgioioso, una donna coraggiosa in Asia Minore e in Siria nel1800

LA COPERTINA DEL LIBRO

Dopo la disfatta della repubblica romana nel 1849 Cristina Trivulzio di Belgioioso, che era stata una delle animatrici di quella rivoluzione, fugge. Lascia l’Italia e si imbarca con la giovane Maria, sua figlia, e la governante Miss Parker, per Malta.  Qui rimane per poco tempo, l’isola è piccola e poco adatta alla inquietudine che sempre caratterizzerà la vita e l’animo della Principessa. Da Malta si reca prima in Grecia e poi a Costantinopoli. Già questa sua prima scelta mostra un certo carattere di originalità, anche se la Turchia all’epoca offriva rifugio a esuli europei di varie nazionalità.  Altre potevano essere le mete più scontate per lei. Certo non la Francia, colpevole agli occhi dei patrioti del ’48-’49,   della disfatta delle loro speranze; la Francia per Cristina aveva costituito un sicuro asilo in anni non molto lontani, quando, dopo la fine del suo disgraziato matrimonio, in qualche modo perseguitata dalla polizia austriaca, vi si era  rifugiata e vi aveva trovato un ricovero  sereno, anche se, per lo meno in un primo momento, era stata costretta a guadagnarsi di che vivere, per la prima volta nel corso della sua agiatissima esistenza. Ma l’Inghilterra, e forse anche l’America, avrebbero potuto costituire un approdo valido.  Per altro, infatti, in Inghilterra aveva trascorso un periodo non breve insieme ai fratelli, dopo la nascita nel 1838 della figlia Maria. Ma Cristina, con grande imprevedibilità, sceglie invece la Turchia interna, non paga di fermarsi a Costantinopoli, la più europea delle città turche. Una volta in Turchia la Principessa viene, infatti, riafferrata da quello che era stato, e rimarrà per tutta la sua vita, un suo grande amore: quello per la terra. A Locate, dove i Trivulzio avevano molti possedimenti e dove era tornata quasi stabilmente dopo i dieci anni di esilio francese nel 1840, Cristina aveva iniziato, compatibilmente con le possibilità della sua errabonda vita, una serie di riforme atte a migliorare le condizioni dei contadini, convinta che questo avrebbe anche notevolmente aumentato la rendita dei suoi possedimenti. Aveva dichiarato spietata guerra all’alcolismo, aveva fatto costruire uno scaldatoio, cioè un luogo dove, soprattutto le madri con figli piccoli, avrebbero potuto rifugiarsi durante i rigori più crudi dei mesi invernali, aveva concesso a prezzo politico un pasto caldo agli indigenti e via di questo passo, senza mai tuttavia cadere nel vuoto filantropismo, conscia come era, che anche questi miglioramenti dovessero essere pagati dai lavoratori, se pure in modo molto blando e ragionevole,  perché il  suo buon senso le suggeriva che altrimenti non ne avrebbero apprezzato il vero valore. Ecco allora che una volta giunta in Asia Minore, preferisce lasciare la grande città e comprarsi una fattoria nei dintorni di Ankara, in un luogo che definirà in seguito delizioso, a Ciaq-Maq-Oglou: la Valle del figlio della pietra focaia.

 Di nobilissime origini, e tuttavia lombarda e quindi abituata da sempre a vedere il mondo con grande realismo, senza abbandonarsi a sentimentalismi, si rende subito conto perfettamente di aver comprato a un prezzo assai maggiore di quello corrente. Ma non le importa, nonostante le numerose e ripetute asserzioni di povertà; il luogo, certo solitario,  ma piacevole, la valle verde e fertile, il ruscello che vi scorre, la quiete che finalmente può offrire alla giovane figlia sembrano compensarla ampiamente del danno economico. Qui potrà fondare una colonia agricola modello e dare asilo ai rifugiati politici soprattutto italiani. Progetti che, naturalmente, in poco tempo mostreranno tutta la loro inconsistenza.

Ma la pace dura poco, nel 1852 si pone a Cristina un problema che evidentemente la assilla  profondamente; la figlia Maria, ormai tredicenne, non ha ancora ricevuto la prima comunione e nella Valle Della Pietra Focaia è piuttosto difficile reperire un prete cattolico. La soluzione più ovvia sarebbe naturalmente quella di andare a Costantinopoli dove certamente si poteva riparare alla bisogna, ma la Belgioioso sicuramente non fa mai scelte scontate. Pensa quindi di dirigersi con una numerosa compagnia a Gerusalemme, dove la ragazza potrà comunicarsi e lo farà durante la settimana santa. Allestisce allora una specie di carovana composta, a suo stesso dire, da una ventina di persone; ne fanno parte, oltre naturalmente alla fedele Miss. Parker, che durante tutto il suo girovagare non l’abbandonerà mai,  ovviamente Maria, mulattieri, portatori, scorta e il marchese Orazio Antinori, che aveva conosciuto a Smirne e seguito nelle sue spedizioni di caccia. Più tardi il gentiluomo, studioso di scienze naturali e ornitologia, patriota della Prima Guerra di Indipendenza e poi della repubblica romana, diverrà uno dei più importanti esploratori italiani per l’Africa nera. Nel gennaio di quell’anno parte e comincia un viaggio che la terrà lontana da casa per circa undici mesi. Definire, tuttavia, tout court viaggio, quello della Principessa, forse non è del tutto appropriato, si tratta infatti piuttosto di un pellegrinaggio, per le particolari caratteristiche che assume. Intanto lo scopo è, e resta, completamente religioso, si parte per giungere a una meta sacra, per conoscere i luoghi della vita e della passione di Cristo, per testimoniare una fede che in Cristina rimarrà sempre forte e intatta, anzi rinvigorita dalla permanenza in Oriente e dalle mille peripezie della sua vita. E che quello di Cristina sia sentito proprio come un vero pellegrinaggio, e non solamente da lei, è chiaramente testimoniato da un episodio che le accade sulla via del ritorno.  Nel brano intitolato Il lavorio della coscienza, giungendo per la seconda volta a un villaggio fra il Djour-Daghda e Mysis, la popolazione le si fa intorno, tutti le chiedono di toccare e benedire i bambini, alla fine la Principessa riesce a scoprire il mistero che si cela dietro questo strano comportamento; nella sua prima visita gli abitanti l’avevano ingannata e truffata, ma dopo la sua partenza si erano abbattute sulla popolazione una serie di disgrazie, che tutti avevano unanimemente attribuite al fatto di aver nociuto A una persona in un certo senso sacra e intoccabile proprio in quanto pellegrina; così adesso, quando Cristina  vi giunge per la seconda volta, decidono di fare ammenda e placare così l’ira di Dio e con essa la malasorte.

 Il fatto che il suo sia sicuramente un pellegrinaggio non le impedisce, tuttavia, per tutta la durata del cammino di cercare di comprendere il mondo che la circonda e di godere di questa sua accresciuta conoscenza, desiderando anche farne parte ad altri,  cosa del resto non nuova anche per altre pellegrine di epoche assai più antiche.  Ecco allora che le varie tappe costituiranno una serie di articoli, in francese, che invierà alla Revue des Deux Mondes a Parigi dove saranno via via pubblicati. Saranno poi raccolti in un volume che uscirà in Francia  dal titolo Asie Mineure et Syrie[1], in seguito tradotto anche in inglese, Orienthal Harem and scenery [2],  titolo quest’ultimo che in qualche modo riassume, ma anche sminuisce, come vedremo in seguito, il senso dell’opera. Per quanto riguarda l’Italia l’opera è stata più volte tradotta[3],ma mai per intero. Generalmente se ne conosce la prima parte: dalla fattoria di Ciaq-Maq-Oglou fino a Gerusalemme, e non la seconda che potremmo definire il ritorno. Vengono così a mancare circa la metà degli articoli, che sono invece veramente interessanti, relativi soprattutto al soggiorno ad Aleppo e Damasco, con le esperienze in quelle città e le  osservazioni dell’autrice sul paesaggio. La nostra traduzione, che è invece completa, si basa ovviamente sul testo francese originario, ma abbiamo anche tenuto in un certo conto la traduzione in lingua inglese, ma pubblicata a New York,  con un riscontro puntuale e segnalando, là dove lo si ritenesse necessario,  le differenze più significative. Siamo infatti della convinzione che, con buon margine di probabilità, la Principessa fosse al corrente di detta traduzione sia perché di poco successiva all’edizione francese, sia perché ella stessa conosceva molto bene la lingua ed era quindi in grado di esercitare un controllo efficace.

IL TITOLO

 Come abbiamo visto, l’opera, del 1858, si intitola in francese: Asie Mineure et Syrie, e raccoglie con qualche aggiunta gli articoli che la Principessa aveva inviato alla Rivista nel 1855 con il titolo di La vie intime et la vie nomade en Orient,  mentre in inglese Oriental harem and scenery; il confronto fra i due titoli già mostra quelle che sono state le interpretazioni prevalenti del lavoro della Belgioioso e anche gli equivoci che su questo lavoro sono nati. Ci pare infatti assai più corretto il primo titolo, il secondo dà inizio, invece, a un filone interpretativo che a noi sembra francamente riduttivo. Quasi tutti i commentatori, dai più antichi ai contemporanei, hanno posto l’accento sulla straordinaria importanza della testimonianza della Pellegrina, che, a differenza dei viaggiatori maschi, ha libero accesso agli harem e li descrive in modo chiaro, mettendone in evidenza soprattutto gli aspetti meno edificanti e più cupi, sfatando così un cumulo di leggende e immagini stereotipate su questo costume dei popoli del Medio Oriente importante, E al contempo affascinante, nella sua diversità. Si è perfino, in epoche più vicine a noi, avvicinata Cristina Trivulzio a una specie di femminista ante litteram, sia per la sua vita avventurosa e libera da schemi convenzionali, sia soprattutto per i giudizi impietosi su questo mondo orientale così chiuso e, certamente, anche ostile  verso le donne, oltre che per altri suoi scritti successivi, commettendo così, a nostro avviso, un errore di valutazione. Nell’opera, infatti, ci sono molte e acute descrizioni della vita familiare in Oriente, ma ridurre il suo senso a questo solo aspetto è certamente assai limitativo. C’è ben altro, e la personalità della scrittrice ci si rivela in tutte le sue sfaccettature.  Nella sua movimentatissima vita Cristina ha fatto numerose esperienze, che l’hanno arricchita sia dal punto di vista morale sia da quello mentale, e ha anche acquisito numerosissime abilità, insospettabili in una dama di alti natali, che aveva avuto un’educazione  completa e approfondita, ma di puro stampo classicistico. È lei stessa a confessare che quando si trova per la prima vota esule a Parigi, e non può attingere al cospicuo patrimonio che le è stato confiscato, deve dedicarsi ai lavori domestici; afferma: “Non avendo mai avuto in mano argento monetario, non potevo rendermi conto del valore di un pezzo da cinque franchi. Al contrario non trovavo difficoltà a classificare una moneta antica secondo la sua importanza. Ignara del prezzo e del valore  commerciale di un oggetto di consumo…Potevo dipingere, cantare, suonare il pianoforte, ma non avrei saputo far l’orlo a un fazzoletto, cuocere un uovo sodo o ordinare un pasto.”[4] Impara così per esempio a cucinare, ma non sarebbe Cristina se  non riuscisse a compiere questa faccenda, così comune, in modo tutto suo ed originale. Spesso, infatti, viene nella sua povera casa a preparare la frittata insieme a lei niente meno che il grande Lafayette, ormai anziano, ma ancora vigoroso e capace di apprezzare il fascino di questa bellissima giovane donna. E la Principessa imparerà ancora molte cose a cui le consuetudini della sua classe non l’aveva certo destinata. Molti anni dopo, durante il periodo della repubblica romana, si dedicherà all’organizzazione degli ospedali e alla cura dei feriti, dimostrando una volta di più  le sue notevolissime capacità pratiche, la sua totale spregiudicatezza e la sua mancanza di preconcetti. Non si periterà, per esempio, a ingaggiare alcune prostitute come infermiere, suscitando un certo scandalo anche fra gli stessi rivoluzionari, che, come molte volte accade, non sono meno bacchettoni dei reazionari in fatto di morale sessuale.  Scandalizzerà le suore di clausura chiedendo che aprano alcune stanze dei loro conventi per ospitarvi appunto malati e feriti. Alcuni vedono in Cristina addirittura una precorritrice del lavoro di Florence Nightingale.

  Abbiamo visto che nella sua vulcanica vita Cristina si era dedicata, in alcuni periodi trascorsi nella sua tenuta di Locate, a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei suoi contadini, cercando di coinvolgere in questi suoi progetti anche altri possidenti lombardi, che tuttavia restarono completamente sordi alle sue richieste di collaborazione, cosa che la Principessa reputava assolutamente controproducente per gli stessi padroni, certa che lavoratori in buona salute e ben retribuiti lavorassero di più e meglio, con generale vantaggio. Tutte queste attività così diverse, ma sempre tuttavia confluenti, emergono con chiarezza anche dagli articoli che invia in Francia dal Medio Oriente.

Racconterà, infatti, spesso delle cure che viene chiamata a somministrare durante il viaggio a suoi ospiti sofferenti, perché sembra che la sua fama   di medichessa si sia diffusa anche in quelle terre. E gli episodi che racconta a questo proposito sono talvolta tragici, come è ovvio, talvolta comici come gli suggerisce il suo spiccatissimo sense of humor. Viene per esempio chiamata da una madre disperata a curare una ragazza che sta deperendo a vista d’occhio e, pur affatto priva di un’immaginazione romantica, come lei stessa confessa, Cristina pensa a un qualche segreto e contrastato amore; macché! Si tratta invece di ben altro: alla ragazza è capitato di incontrare di sera per le scale un gatto nero: “In effetti la fanciulla si alzò e si avvicinò alla finestra, mentre la madre, sporgendosi verso di me, si apprestava a farmi la confidenza. Ci siamo – pensai- senza dubbio un amante scoperto dal padre snaturato!- “ Bene! Deve sapere, signora, che mia figlia era andata a passare  la giornata da una sua amica, rientrando al far della sera aveva allora salito le scale, senza una lucerna in mano, seguita da una delle serve quando improvvisamente qualcosa  sorto dall’alto, scendendo qualche gradino davanti a mia figlia, la raggiunse, si ingarbugliò nei suoi vestiti e la fece cadere, ella lanciò un grido, e la luna si mostrò in quel momento e la mia povera bambina credette di scorgere un gatto nero che se la dava a gambe Può darsi che non fosse un gatto nero, potrebbe essere stato un gatto grigio, io mi sforzo invano di persuaderla, niente: non si può togliere dalla testa che il gatto che l’ha fatta cadere fosse nero.”

 Oppure assai gustoso è l’episodio dei due fratelli, dei quali uno con una forte indigestione, che crede di morire non appena Cristina gli somministra un emetico e vorrebbe curarsi invece con bicchierini di acquavite e acqua ghiacciata; il fratello terrorizzato quasi sequestra Cristina fino a guarigione avvenuta. Ma viene ritenuta non solo un buon medico, anche la sua fama di combattente l’ha preceduta; uno dei suoi illustri ospiti, un bey molto militaresco, le fa passare in rassegna le truppe, le chiede consigli di tattica e di strategia e infine regala alla figlia Maria un bellissimo puledro arabo, con la principessa che per tutta la rivista trattiene le risate e alla fine,  pur conscia del ridicolo, ma assolutamente intenzionata a non deludere il suo ospite, si esibisce in un bel saluto militare. “Entrando nel vasto cortile che precede il suo palazzo, tutte le truppe che vi erano schierate in bell’ordine, mi presentarono le armi; onore al quale risposi, non ve lo confesso senza arrossire perché ciò era perfettamente ridicolo, ma che fare? Eseguendo così bene come me lo permetteva la memoria il saluto militare.”

 E il suo spirito pratico ricompare sempre, come il suo interesse per la produzione, le statistiche, l’economia, interesse che del resto ha dimostrato e dimostrerà ancora, in molti articoli dei suoi giornali[5].  Significativo è il brano che riguarda la vista a una miniera di piombo: quello che le interessa è la conduzione e la produttività della miniera medesima, le domande che pone ai dirigenti sono pertinenti e lucide e si avverte tutta la delusione per non essere riuscita ad ottenere risposte soddisfacenti. “Vi è una grande quantità di miniere sparse qua e là per la montagna e la più grande quantità non è sfruttata. Vedendo le quantità di piombo che i forni espellono continuamente, i pochi uomini impiegati nell’estrazione e l’estrema semplicità dei metodi impiegati, mi venne da pensare che  l’affare poteva divenire assai redditizio. E lo pregai di darmi dei ragguagli su la spesa e la resa dello sfruttamento. Egli si prestò con la migliore buona volontà del mondo, malauguratamente mi accorsi subito che era un compito superiore alle sue forze e che non si era mai fatto simili domande. Mi chiese allora il permesso di far venire il suo intendente, che sarebbe stato maggiormente in grado di darmi a questo riguardo quelli che  a lui piaceva definire come dettagli; ma l’intendente fu preso alla sprovvista come il suo padrone. Rinnovai le domande in forme diverse ed i due effendi  cominciarono infine a rispondere; ma era ancora peggio di prima, perché le loro risposte mi dimostrarono che non mi comprendevano per niente.

 Il suo interesse va anche ad altri aspetti della vita quotidiana: cosa mangiano, come si vestono, come si truccano, quali riti seguono, in cosa credono, in che cosa consiste la loro religione, che relazioni ci sono fra tutti questi aspetti della loro vita? Sono queste le domande che la Belgioioso si pone mentre  guarda a quel mondo con occhi disincantati, attenta a non farsi prendere dal fascino dell’esotico e mostrando quanto vi sia di squallido in quella società. Certo la giornalista è donna di intelligenza e tempra eccezionali, e di grande indipendenza intellettuale, ma le fanno grave torto coloro che vogliono attribuirle una visione del mondo e della vita troppo moderna e lontana dalla sua cultura e dai suoi tempi.  Per esempio Cristina non è certamente una protofemminista, e passi come questo lo dimostrano chiaramente, “Qualunque cosa l’uomo e la donna possano essere nella società civilizzata, certo è che nello stato di natura l’uomo è superiore alla donna e che essa non si eleva che associandosi a lui” ,anche se il suo lombardo buon senso e la sua educazione, più illuministica che romantica, la spingono a vedere l’inutilità e la crudeltà nel modo in cui le donne sono trattate in Oriente. Cristina è assolutamente convinta, inoltre, della superiorità della civiltà occidentale su quella orientale e lo ripete a ogni piè sospinto; non nega, per esempio, che i turchi, specialmente quelli di bassa condizione, abbiano molte buone qualità come la gentilezza d’animo, l’amore e il rispetto per gli animali, ma ritiene che la loro religione, una religione da guerrieri  distruttori e non da pacifici costruttori, impedisca loro di migliorare e di far prevalere i valori di una civiltà che lei vede solo e solamente in Occidente. Tuttavia sa di che cosa parla e le sue idee, condivisibili o meno che siano, soprattutto adesso che è trascorso un secolo e mezzo, sono documentate; ha letto più volte il Corano, lo ha studiato e, solo dopo questo attento esame, si è formata un’opinione, che può sì essere negativa, ma non è mai preconcetta. Questo è quello a cui alludevamo parlando della sua notevole libertà intellettuale e questo il suo maggior merito, non sempre condiviso con giornalisti di ben più chiara fama e di idee apparentemente più avanzate.

CRISTINA FRA ILLUMINISMO E ROMANTICISMO

Anche a un primo esame appare evidente che l’opera nel suo insieme risente, almeno in parte, dello spirito romantico dell’epoca, a questo proposito significative alcune descrizioni di paesaggi, ad esempio ecco quella della così detta Porta delle tenebre, che sembra modellata sull’esempio di quel gusto dell’ oscuro, del macabro  e del pittoresco che caratterizza una certa parte del romanticismo e ancor più del preromanticismo, soprattutto nordico: “Il luogo dove si svolse questa scena  mi colpì per il suo aspetto pittoresco. Si chiamava la Porta delle tenebre. Questa porta è un antico arco di trionfo, le cui rovine figurano in modo mirabile nel paesaggio. L’arco sorge al fondo  di un burrone la cui ricca vegetazione contrasta con i pendii aridi attraverso i quali vi si discende. Gli alberi che circondano la Porta delle tenebre sono abbastanza fitti per offuscare in qualche modo la luce del sole e non lasciano arrivare fino al venerabile arco che  qualche pallido raggio. Dalla sommità delle colline che circondano il burrone, la vista si estende sul mar della Siria, dove le onde ruggiscono a poca distanza, e sulle linee bluastre delle sue coste. Lo spettacolo è magnifico, soprattutto per degli occhi che fino a quel momento erano stati rattristati dalle ombre sinistre delle prime gole del Djaour-Daghda.

 Ma Cristina, fra l’altro molto amica di Giulia Beccaria, non dimentica neppure mai la grande tradizione dell’illuminismo lombardo che meglio si confà ai suoi gusti e al suo abito mentale. Così non si stanca di ripetere che il sentimentalismo non fa per lei; la descrizione, poi, di rovine e antichi monumenti, così cara agli scrittori dell’epoca, è quasi del tutto assente. Pochissimi i riferimenti ai resti di un passato antico e glorioso, che pure incontra certamente nella sua lunga peregrinazione. Il suo sano scetticismo le impedisce la commozione anche davanti ai monumenti e ai ricordi biblici di Gerusalemme e altri luoghi della Terra Santa. Visita diligentemente quanto i frati francescani, che la ospitano, le consigliano e quanto viene di norma segnalato ai pellegrini, ma  ritorna spesso sui dubbi che le provoca l’autenticità  di queste memorie. Il suo scetticismo tuttavia si limita all’esteriorità, il suo animo resta sempre e convintamente cristiano e cattolico.  E così, profondamente commossa, scrive una pagina di intenso trasporto  quando per la prima volta vede Gerusalemme. “Dedicai un momento alla contemplazione di quel grande spettacolo. Dentro di me uno strano tumulto; sentii la mia gola contrarsi ed i miei occhi riempirsi di lacrime, come se avessi ritrovato una patria più antica di quella dalla quale ero stata esiliata. Cosa strana questa sensazione di benessere e di profonda gioia non mi lasciò durante tutto il mio soggiorno a Gerusalemme. Questo arrivo in una città sconosciuta ebbe per me tutto il fascino di un ritorno.”  Che è poi quello che qualunque pellegrino, dotato di un minimo di fede e di cultura, non può non sentire all’arrivo nella Città Santa. Tuttavia non esita a criticare il fatto che venga battezzata, insieme alla figlia Maria, anche una giovinetta protestante, che già lo era stata  nel suo vecchio credo,  per cui il sacramento deve ritenersi ancora perfettamente valido. “Il sacramento non fu dato che a due ragazze, una delle quali non c’è bisogno di nominare, l’altra, una giovane tedesca, che venne per abiurare il protestantesimo e  alla quale per prima cosa fu dato il battesimo. Lo scopo dichiarato di quest’ultima cerimonia fu di far credere ai semplici che i luterani non sono cristiani. Ciò non di meno l’atto è contrario alle vere intenzioni della Chiesa, che non ammette un secondo battesimo tranne che nei casi in cui la somministrazione del primo non appaia dubbia. La sola scusa che avrebbero potuto invocare gli inventori di questa manifestazione ostile ai protestanti, sono le testimonianze di malevolenza che questi stessi protestanti preparano così poco alla minoranza cattolica di concerto con i musulmani, i greci, i giudei e gli armeni scismatici, oggi assai numerosi a Gerusalemme.” 

 Come si vede la fede non le fa certamente velo e la critica verso i suoi stessi correligionari risulta assai severa.

Se dunque alcuni atteggiamenti di Cristina sono simili a quelli di antiche pellegrine, in particolare allo splendido racconto di Egeria, che nel quarto secolo, guidata da fede vera si reca in Terrasanta e si sofferma a descrivere minutamente la sua esperienza, indirizzando il suo racconto a non meglio  specificate sorelle e non manca di annotare tutto quello che la colpisce durante il cammino, il comportamento della Principessa è tuttavia profondamente cambiato e,  come è ovvio, assai più moderno: la fede è un fatto puramente interiore, assolutamente slegato dal culto dei luoghi o delle reliquie, che  non la interessano più di tanto. Significativa la pagina in cui descrive il suo primo mattino a Nazareth. Si sente delusa di non provare nessuna reale commozione, come del resto non ne ha provata davanti ai resti del glorioso passato di Roma o della Grecia classica, e conclude con queste parole: “niente riusciva a eccitare in me quell’entusiasmo che tante anime elette avevano provato in presenza dei medesimi luoghi”. E così la Principessa pellegrina nega in effetti il valore del pellegrinaggio, per contraddirsi, almeno in parte,  solo al suo arrivo a Gerusalemme, come abbiamo visto.

E la sua propensione al sano realismo e al buon senso, unita a quel suo spiccato senso dell’umorismo al quale abbiamo già accennato, le suggeriscono  alcuni dei brani più vivaci della raccolta. Intanto disegna in punta di penna i ritratti dei missionari protestanti,  specialmente inglesi; con la loro  Bibbia in mano, abbigliati come si recassero ad un tè londinese, suscitano in lei contemporaneamente un senso di ilarità per il ridicolo che li accompagna e la spontanea ammirazione che sempre prende noi mediterranei davanti alla loro incrollabile sicurezza, al loro sprezzo del grottesco,  al loro candore, alla granitica fiducia di poter cambiare il mondo, un mondo che agli occhi esperti di Cristina, come del resto ai nostri, ostinatamente si rifiuta di cambiare. Ecco poi i convertiti: giudei che ambiscono a una pensione; poi, quando hanno ottenuto un impiego, l’ardore del neofito si spegne ed egli rientra nella sua religione oppure ne sceglie un’altra che possa almeno fornirgli un letto e un pasto caldo!

CRISTINA ED IL GIORNALISMO

Recenti pubblicazioni[6] hanno messo molto ben in chiaro il ruolo della Belgioioso nel panorama del giornalismo della sua epoca. Si sono notati soprattutto la sua concretezza e il suo spirito pratico, lontani dall’atteggiamento astratto e utopistico di molti patrioti del periodo. Eccelle per esempio nella raccolta dei dati e nelle statistiche, soprattutto quando deve sostenere le sue riforme in quel di Locate o si riferisce alla condizione delle donne e dei lavoratori. Anche se questo amore per il dato fattuale  rimane comunque il tratto distintivo anche nell’opera che stiamo analizzando, tuttavia il ruolo di Cristina come grandissima giornalista di costume non ci sembra ancora completamente approfondito. Il suo è un vero e proprio reportage, che ha lo scopo, per altro dichiarato fin dall’introduzione all’intera raccolta, di informare i lettori sulle vere condizioni di vita, i costumi, le abitudini di popoli allora considerati molto lontani dagli europei. E in questa ottica va letta la vera cifra distintiva dei suoi articoli: racconterà quello che vede senza farsi fuorviare da una visione stereotipata e di maniera del mondo orientale. Niente false avventure, personaggi tenebrosi, donne fascinose e mistero, ma solo la cruda realtà, e in questo primeggia, come anche nella sua capacità di alternare i toni: dal tragico, al lirico, al comico con un gusto per il particolare illuminante che rende l’opera estremamente avvincente. Ecco il comico per esempio, insuperabili alcune scenette di vita quotidiana. Una signora, che si spaccia per gran dama, ma in cui la principessa riconosce subito un’europea di origini assai umili e dal passato oscuro, che cerca di convincere alla ribellione due povere  spose dell’harem di Haffyz-Mehemed-Pacha, mentre chiaramente medita di portar loro via il marito.  Oppure la già citata scenetta della rivista militare in cui soprattutto diverte il suo sforzo di non scoppiare a ridere come una scolaretta.

 Una parola a parte merita anche l’episodio dell’hascisc, che tanto scandalizzò i suoi  contemporanei, quando confessa che la droga non le procura che un po’ di mal di testa e rimane fra il preoccupato e il divertito davanti alle reazione scomposte e stravolte di alcuni suoi ospiti. E talvolta il suo umorismo sfiora addirittura il surreale come nel colloquio sulla strada per Ankara con i suoi mulattieri; sembra una scenetta dalle commedie in tre battute di Achille Campanile.

La strada che seguivamo doveva  riportarci da mezzogiorno o da sud-est dell’Asia Minore, cioè da Tarso, verso nord-nord-est senza passare da Angora, che si trova più ad est. Non fu una cosa semplice far comprendere queste intenzioni, del resto ben semplici, ai miei mulattieri. “Passeremo per Angora” mi dicevano senza tregua.  “No, non voglio passare da Angora” “Ah! Bah! E perché? Tuttavia la strada ci passa” “La strada? Quale strada?” “ La strada di Angora” “Ma non è ad Angora  che vado: è Saffran-Bolo” “ Dove è?” “È dieci ore dal Mar Nero e dal porto di Barten; è a tre giorni dalla città di Bolo; è a dieci ore più ad ovest della montagna di Bayendurh”

Le mie spiegazioni geografiche servivano a confermare i mulattieri nel pensiero che dovevo passare per Angora. Uno di loro, eppure, si piccava di conoscere i Franchi, il loro carattere ecc. aveva l’aria di venire in nostro soccorso osservando ai suoi compagni che ero ben padrona di seguire la strada che preferivo e di non passare per Angora. “State tranquilla- mi disse con un tono mezzo protettivo – andrete dove vi parrà. Che bisogno abbiamo di andare ad Angora? Faremo il giro della città dal di fuori e nessuno di noi vi metterà piede, se ce lo proibite.”

 Ci sono anche momenti lirici, come nella descrizione di una casa conica nel capitolo Casupole,  dopo la partenza dalla città di Hama: l’abitazione è così misera che la principessa la paragona a un antro nel quale esita ad entrare, ma una volta  entrata si rende conto che è dignitosamente pulita e arredata dai due vecchi che la abitano  e così la descrive in un modo che richiama la descrizione del Filemone e Bauci nelle Metamorfosidi Ovidio, opera che la Principessa, con la sua approfondita cultura classica, non poteva certo ignorare e che del resto fa parte del bagaglio scolastico di chiunque abbia studiato un po’ di latino. In effetti il nostro ospite era l’arabo più pulito, dolce e benevolo fra tutti quelli che avevo incontrato. Lui e la sua vecchia compagna ci colmarono di premure, di offerte di servigi e di meloni, e, cosa che ancora più straordinaria, si contentarono della ricompensa che giudicammo giusto donare loro, senza cercare di aumentarla per il loro incomodo.

E se qualche volta c’è dramma ella si preoccupa sempre di non enfatizzare perché, come abbiamo ripetuto, non le interessa il colore, ma la realtà.

CRISTINA E IL REALISMO

Ma che cosa significa descrivere il reale per Cristina? Per esempio raccontare che trova le pulci nel letto e che le loro punture la infastidiscono, particolare assai poco poetico, ma che indubbiamente rende più vivo il quadro, come anche la menzione degli escrementi che vengono bruciati per riscaldamento in alcune regioni dove gli alberi sono piuttosto rai. Reale è raccontare cosa si mangia a pranzo in quelle terre e che cosa le piace o non le piace, in qualche modo assimilando il proprio gusto a quello comune in Europa; come reale è descrivere minutamente l’arredamento, compresa la predilezione  delle donne orientali per le stanze ermeticamente chiuse e surriscaldate in modo tale che la principessa si ritrova continuamente con il mal di testa. Reale è raccontare pezzo per pezzo l’abbigliamento delle donne e degli uomini, con frequenti apprezzamenti sul tipo e la qualità delle stoffe. Ancora è reale descrivere le qualità dei cavalli che porta con sé o le loro caratteristiche.

 A questo proposito una parola deve essere dedicata all’attenzione e all’amore che la Principessa dedica a questi nostri amici; le piacciono veramente,  e non solo, come sarebbe ovvio gli splendidi cavalli arabi, ma anche le capre, per quelle d’angora ha una vera predilezione, e i gatti; un affetto e un’ammirazione particolare soprattutto ai cani. Ed ecco così la gustosa macchietta del cane che le viene rubato da un signorotto locale e che la figlia Maria, che dalla madre sembra aver ereditato lo spirto combattivo, si riprende; così l’uomo sarà conquistato dal carattere della ragazzina e si unirà al gruppo della Principessa, divenendo un suo valido aiuto in più di una circostanza difficile, anche dal punto di vista psicologico. Ma l’episodio più commovente è quello del cane, stupidamente ferito dalla sventataggine dei dieci fratelli nell’omonimo capitolo, che nonostante tutto continua a seguire la carovana, di come  si cerchi di trovargli un modo comodo per viaggiare e infine di come ormai sfinito e pressoché in punto di morte riesca tuttavia fedelmente ad arrivare con loro a Damasco.

CRISTINA E GLI HAREM

E veniamo ora alla spinosa questione degli harem, alla quale abbiamo già accennato a proposito del titolo americano. La Belgioioso ne fa una descrizione deprimente. Luoghi sovraffollati, sporchi, bui, dove si ammassano promiscuamente donne e bambini, dove non c’è rispetto per l’intimità, non si trova delicatezza di sentimenti, ma una continua lotta per il potere, che si traduce poi in una guerra per accaparrarsi le grazie del marito. Le donne che popolano questi luoghi, e che molto spesso irritano e disgustano l’autrice, sono sporche, ridicole e spesso tanto prive di morale quanto di sentimenti genuini. Si presentano al marito con tutta la falsa apparenza della gentilezza e della sottomissione, e in realtà sono scaltre e ipocrite.  Ma quello che, sopra a ogni cosa non può essere loro perdonato, è la mancanza di affetto e cure per i bambini, piccoli tiranni lasciati a se stessi a cui non viene insegnato niente, destinati a ricevere qualche cura dai padri solo se sono maschi e solo fino al momento della adolescenza, quando saranno mandati fuori di casa a cercarsi la loro strada senza più legami con la famiglia di origine. Il degrado della famiglia è dalla Principessa attribuito completamente alla religione. Maometto voleva dei soldati, non degli uomini di famiglia; quello che serviva erano molti figli, non l’attaccamento a una casa e a una moglie sola; tutto questo avrebbe potuto frenare, come certamente avrebbe fatto, l’ardore guerriero degli uomini, mentre, in questo modo, privandoli dei legami familiari attraverso la poligamia, egli aveva raggiunto lo scopo di farne veri soldati della fede.

Eppure, soprattutto nei turchi, in modo particolare in quelli di bassa condizione, Cristina riconosce una delicatezza d’animo rara. Hanno rispetto per le donne, come si deve aver rispetto per chi è debole e inferiore e se ne lasciano tiranneggiare. Un senso del pudore innato li rende riguardosi, verso quello che a loro appare come il sesso debole. Un servo che per errore un mattino entra nelle camere delle donne, nella fattoria della Principessa, scappa e viene ritrovato solo dopo diverso tempo tremante e disperato, anche se nessuno si sogna di imputargli niente, data la chiara mancanza di intenzionalità del gesto. E così si comportano anche nei confronti degli animali, dei quali hanno cura e rispetto, trattandoli con dolcezza e riuscendo a stabilire con loro un rapporto affettivo sensibile e profondo.

E Cristina non si limita agli harem, ma cerca di sfatare anche molti altri luoghi comuni sulla vita in Oriente. Prendiamo come esempio la tanto decantata ospitalità orientale,  prevista addirittura dalla legge coranica, in realtà secondo la Belgioioso essa si limita  all’ospite che si trova sotto il tetto del padrone di casa. Fino a che si è in questa condizione tutto si può: prendere gli oggetti anche più cari del padrone di casa, i suoi cavalli, spendere il suo denaro ecc. ecc., ma non appena se ne varca la soglia e ci si allontana anche di un solo passo, perdendo così lo status sacro di ospiti, non si esiterà a farvi pagare quanto avete preso e anche più.

Nessun fascino neppure per le città asiatiche, la scrittrice è completamente indifferente al così detto colore locale: le strade sono sporche e buie, le mura sbrecciate, i cani randagi fuori di ogni controllo, insomma un vero disastro, che mette a dura prova il suo senso della pulizia, dell’ordine e dell’organizzazione. Non si perita a descriverci i morsi delle pulci nei luoghi assai poco puliti che è obbligata a frequentare, e più di una volta cambia sistemazione proprio perché l’alloggio è sudicio o costringe chi la ospita a fare le pulizie a fondo.

Come le case e le strade anche il cibo la soddisfa poco, il caffè è imbevibile, il pane flaccido, il latte acido all’inizio non le piace e le serve un certo sforzo per abituarvisi, il riso si mangia con le dita e via di questo passo. E per continuare con le scomodità: pettine e spazzola sono completamente sconosciuti così come i vetri alle finestre, gli abiti delle signore ridicolmente coperti di ornamenti e i gioielli sono esibiti in modo assai poco fine. Ma quello che più la infastidisce sono le persone, anche i mendicanti europei sono assai migliori di quelli orientali, i nostri, infatti, si contentano di quello che viene dato loro, mentre in Oriente, specialmente intorno alle moschee, ti circondano, cercano di imporsi, quasi ti asfissiano nell’indifferenza generale. E che dire poi dei santoni e dei dervisci? I primi sono gentaglia che approfitta della propria posizione per penetrare nelle case della gente dabbene e arraffare quanto trova a portata di mano senza rispetto e misura, uno addirittura si mostra nudo per strada a sua figlia e a un’altra ragazzina sua amica, provocando nelle bambine un comprensibile spavento; per quanto riguarda i secondi, che le offrono uno spettacolo che finalmente la impressiona, non riesce a capire che cosa nascondano e sospetta la frode, anche se onestamente non sa dire in che cosa consista. In tutta l’opera, quindi, continuo è il paragone, talvolta espresso, talaltra sottinteso, con l’Europa e mai che la questione si risolva a favore dell’Oriente. Gli europei sono sicuramente superiori per usi, costumi e moralità, ma ciò che soprattutto li rende migliori, e qui veniamo al punto decisivo dell’opera, è la religione. La religione cristiana ha abituato gli animi a una moralità e a una sensibilità che i turchi e gli arabi nemmeno immaginano, pur essendo forniti dalla natura di animo sensibile, come abbiamo detto, e di una spontanea delicatezza di sentimenti; solo quando questi ultimi si avvicineranno e adotteranno i nostri usi, la Principessa tuttavia non dirà mai la nostra religione, potranno affrancarsi dallo loro stato di inferiorità. Questa, che piaccia o no, è la visione di Cristina Trivulzio di Belgioioso; assai diversa dalla nostra, come del resto è normale: da allora tanta e convulsa storia è trascorsa e sarebbe da una parte ingeneroso tacciare la Belgioioso di razzismo e sciovinismo e dall’altra  assurdo  cercare di dimostrare una sua modernità che, pur nella sua vivace capacità di superare molti degli stereotipi del suo tempo, certamente non poteva avere. Ci sembra, dunque, che non rispondano al vero le interpretazioni che ne fanno una donna contemporanea per apertura di idee. È indubbiamente coraggiosa, aperta, curiosa, libera di pensiero, ma lo è nei limiti che le vengono imposti dalla sua età e condizione. Attribuirle altro è pura fantasia.

 Ma allora in che cosa consiste la grandezza di questa donna, che non sembra aver potuto superare che in parte i limiti e i pregiudizi della sua epoca? Cristina è una grande, grandissima giornalista di costume: la notazione particolare su un personaggio o un carattere, la capacità di tratteggiare velocemente una situazione, l’acutezza nel guardare dietro le apparenze e soprattutto la capacità di porre alle persone le domande giuste affinché il lettore comprenda il quadro di riferimento, in modo da soddisfarne le curiosità e in ultimo, ma non per ultimo, il suo senso spiccato dell’umorismo, che talvolta sfiora con risultati esilaranti la surrealtà .

 La sua capacità di costruire l’articolo di costume, unita al suo senso del ridicolo e spesso anche alla volontà di non prendersi troppo sul serio, sono queste le caratteristiche che rendono moderno e godibile il suo scritto, non un’anacronistica capacità di giudicare, come vorremmo giudicarla noi, la differenza fra Oriente e Occidente. Non chiediamole quello che non può darci, in questo modo non le faremo torto. Il suo modo di costruire un reportage è questa la sua modernità!

E infine magistrale è il fascino che emanano certe descrizioni di paesaggio, là dove riesce a non farsi condizionare dalle romanticherie di maniera. Certe descrizioni della luce o delle notti, del cielo, dei giardini, dei fiumi, dell’acqua del mare attingono a vette di lirismo nella loro semplicità; anche in questo Cristina spesso eccelle.

E DOPO

Dopo il pellegrinaggio Cristina rimane ancora qualche tempo nella sua tenuta di Ciaq-Maq-Oglou fino al ben noto fatto di sangue.  Viene ferita gravemente da un servo che era già stato l’amante crudele della fedele Miss. Parker. Si tratta di un certo Albergoni, già disertore dell’esercito austriaco che le era stato raccomandato dal marchese Antinori come persona fidata. È una vicenda a fosche tinte, l’Albergoni, dopo che era stato aspramente rimproverato da Cristina per aver picchiato la Parker, e minacciato di licenziamento, una sera la segue in camera e la pugnala, ferendola gravemente per cinque volte, questo e anche la speranza che gli austriaci revochino il bando la convincono a tornare in Patria. Poco dopo venderà al governo turco la sua tenuta e rientrerà in Italia. Non abbandonerà, tuttavia, totalmente la sua produzione orientale perché comporrà opere di fantasia che si ispirano alla sua esperienza personale. Quelle che ci sembrano più notevoli, soprattutto per le relazioni che intrecciano con il reportage del pellegrinaggio a Gerusalemme, sono i romanzi Emina, Le due mogli di Ismail bey, Un principe curdo. Per esempio in Un principe curdo a un certo punto la voce narrante diventa quella di una donna francese in viaggio con la figlia, donna che viene consultata per le sue conoscenze mediche, chiara l’allusione a se stessa che durante tutto il viaggio viene chiamata a consulti di questo tipo. Ma anche nelle piccole cose il romanzo riecheggia da vicino gli articoli giornalistici per esempio nella descrizione dell’abbigliamento femminile; la figura di Hassan-aga ripete poi l’atteggiamento del mufti di Tcherkess nei confronti dei figli che vengono, dopo una certa età, lasciati completamente a se stessi senza alcun appoggio da parte della famiglia di origine; oppure vengono riecheggiate le valutazioni positive sull’operato di Abdul-Mejid. Ma quello che in questo romanzo sembra essere più interessante è il cambiamento della voce narrante. Per più di metà dell’opera abbiamo un narratore esterno in terza persona, ma in seguito interviene un narratore in prima persona cioè la signora francese chiamata al capezzale della protagonista ammalata, quasi che Cristina si rendesse conto di dare il meglio di sé come narratrice quando si allontana dalla fantasia e si muove invece sul piano del realismo più stretto, come capita, infatti, a molti grandi giornalisti: il loro passaggio al romanzo non è certo agevole, è difficile procedere dalla descrizione, per quanto viva, della realtà circostante, verso la realizzazione di una storia inventata e dall’analisi psicologica di persone realmente esistenti alla creazione di caratteri di fantasia; Cristina si perde nello sforzo e rimane a metà fra l’uno e l’altro genere con risultati non propriamente esaltanti. Come non sono certamente esaltanti gli esiti degli altri due romanzi. In Emina i caratteri sono schematici e la tesi di fondo troppo evidente: il cristianesimo è superiore ad ogni altra religione. Ma, detto questo, l’opera riveste tuttavia un certo interesse perché ripropone, ancora una volta, la durissima critica della Principessa agli harem, considerati luoghi di corruzione morale e materiale; la condanna tuttavia di questi luoghi non è da ascriversi, nell’intendimento della Belgioioso, solo  alla convinzione dell’uguaglianza fra uomini e donne, come molti critici hanno asserito, ma ancora una volta alla differenza fra le religioni, solo il cristianesimo ben applicato permette lo sviluppo armonico della personalità sia della donna sia dell’uomo. Tutti concetti che troviamo anche in Le due mogli di Ismail Bey , la doppiezza e i sotterfugi delle donne orientali  sono dovuti all’harem: questo distorto modo di creare una famiglia. Ma nel romanzo compaiono anche personaggi che Cristina ha veramente incontrato nel suo viaggio: un bey semicieco che le chiede di essere curato, come anche ricompare il suo amore per gli animali, in particolare anche per i bellissimi gatti d’angora, così ampiamente descritti nei suoi articoli.

Ma non meno dei romanzi strettamente legato alla sua visione del mondo privato, quella visione che aveva cercato di approfondire anche nel suo reportage giornalistico dal Medio Oriente, è il breve saggio che fu pubblicato nel 1866  sulla Nuova antologia di scienze lettere ed artidal titolo: Della presente condizione delle donne e del loro avvenire. Saggio che, meglio di ogni altra considerazione, può servire a comprendere quale sia realmente l’atteggiamento della Principessa nei confronti della questione femminile. Prima di tutto la consapevolezza della sostanziale parità fra uomo e donna: Che la donna non sia né moralmente né intellettualmente inferiore all'uomo, se non per l'azione esercitata dal fisico sul morale e sull'intelletto, o ancora per gli effetti della educazione, è cosa ormai generalmente riconosciuta ed ammessa. Come si nota, l’accento viene posto sull’educazione, come del resto aveva sostenuto anche nella sua analisi delle donne dell’harem, private totalmente della possibilità di istruirsi e di migliorarsi attraverso la formazione e l’istruzione. Segue poi una spiegazione delle differenze fra i due sessi che rimanda alla storia passata: La donna fu sempre assai più debole (intendo quanto al corpo) dell'uomo. Questi ne dispose dunque a suo capriccio, e la donna, non potendo resistere, chinò il capo, e accettò il giogo. Tuttavia la sudditanza, secondo Cristina, è accompagnata dalla consapevolezza, che del resto era stata messa in luce da  molti filosofi di epoche appena precedenti, che la mancanza di diritti comporta però anche l’umiliante vantaggio della mancanza di responsabilità, con parole che ricordano il famosissimo brano di Kant quando definisce l’illuminismo come l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità: Rimasta per tanti secoli senza coltura intellettuale, scevra di ogni responsabilità negli affari si pubblici come famigliari, essa non ambiva una eguaglianza che le avrebbe imposto doveri faticosi e gravi. E se questo è vero per le donne occidentali lo è ancora di più per le poverette chiuse negli harem, per le quali però, proprio a causa di questo rifiuto di responsabilità personale, insieme alla pietà non può far a meno di provare anche un misto di fastidio e diffidenza. Il saggio continua con affermazioni che non possono non ricordare le acute notazioni su molte donne orientali: in presenza del marito si mostrano come  bambole sciocche e  innocue e poi, non appena questi è assente,  rivelano da una parte la loro vera natura e dall’altra sincero desiderio di conoscere il mondo della Principessa e in genere delle donne occidentali così diverse dal loro: Gli uomini persuasero le donne che la loro ammirazione, il loro affetto era a prezzo della loro inferiorità intellettuale, e le donne hanno così creduto, e ve n'hanno di colte che nascondono la loro coltura pel timore di essere annoverate fra le donne superiori, le pedanti, ed altre simili abbominazioni. Il maggior danno che risultò da tanto inganno, si è, a parer mio il carattere fittizio, di cui le donne si sono rivestite per piacere agli uomini. Il naturale delle donne è intieramente frainteso e falsificato. Ma se, nel periodo del suo pellegrinaggio questa condizione di doppiezza le sembrava riservata quasi esclusivamente alle donne orientali, poiché le europee erano in qualche modo preservate da questa condizione servile proprio grazie alla superiorità della religione cristiana che vede nella donna una compagna dell’uomo, destinata a formare con lui una famiglia basata sulla solidarietà se non sull’affetto, mentre Maometto ha volutamente creato una società in cui la famiglia serve solo alla riproduzione dei figli per avere a disposizione uomini dediti totalmente alla guerra e slegati da ogni affetto personale, adesso che sono passati molti anni, siamo infatti nel 1866, il suo pessimismo sembra divenuto assai più radicale: Da qualunque parte io mi volga per trovare una via di riformare radicalmente la odierna condizione delle donne, scorgo difficoltà così molteplici, così varie e così gravi, che quantunque codesta condizione mi sembri un avanzo della passata barbarie, e un indizio che di questa barbarie non siamo ancora intieramente liberi, non saprei mai alzare la voce per chiederne la riforma.  Cristina ha perso la sicurezza dei suoi anni più giovani e, se pure continua a giudicare la situazione femminile una barbarie, tuttavia ha completamente consumato la speranza che, per lo meno a breve, la condizione femminile possa cambiare, pena l’intera distruzione della società: Che cosa avverrebbe della crescente generazione, se un gran numero di madri di famiglia sciolte per legge da ogni obbedienza al marito e da tutti i doveri, i quali sin qui loro incombevano, si accendessero subitamente di passione per quelli studi virili che potessero aprir loro la via ai pubblici officii, alle pubbliche carriere? Chi si sostituirebbe alla madre nelle cure e nella educazione dei figli, mentre la madre educherebbe se stessa a vita diversa? Chi si sostituirebbe alla moglie nella fiducia del marito, nel governo della casa? A me tali riforme appaiono di una impossibile esecuzione. La sua posizione, allora, risulta ancor più pessimistica perché nel momento stesso in cui nega che la condizione  della donna, in se stessa ingiusta, debba e possa cambiare, in quello stesso momento appunto afferma che tale cambiamento sarebbe  in teoria giusto, quasi un diritto al quale ancora una volta le donne debbono rinunciare per amore di un bene supremo che è quello dei loro cari e della società nel suo insieme: rinunciare a se stesse per amore degli altri: Se alle nature femminili più ardenti, più indomite, più abborrenti del giogo, si offrissero alimenti oltre la tranquilla soggezione della vita di famiglia; se se ne scemassero le tentazioni, coll'aprir loro altri orizzonti oltre quello dell'amore, altri fini da conseguire oltre quello della bellezza e dell'ammirazione, si potrebbero togliere alla perenne e pericolosa ambizione di piacere, e sarebbero più numerose le donne benemerite della società.

Così, allora, l’indomita Cristina, che sembra nel suo libro di viaggio averci raccontato una tranche della sua vita e che in realtà mai rivela al lettore i sentimenti suoi più profondi, racconta indirettamente di sé proprio in questo che è uno dei suoi ultimi scritti e che ad Asia minore e Siria profondamente si ricollega. Dopo aver trascorso una vita più libera, interessante e affascinante di quanto fosse concesso alla stragande maggioranza delle donne della sua epoca, sembra rimpiangere di non avervi saputo rinunciare per amore non di un marito, che del resto non la meritava minimamente, ma di una vita dentro i binari della normalità e della consuetudine, come se solo quest’ultime, pur ingiuste e limitanti, fossero la sola forma, se non di felicità, almeno di serenità concessa a una donna della sua epoca. E così la grande Principessa ci rivela i suoi intimi rimpianti e, almeno per una volta, per questa sola volta, la sua fragilità.



[1]Belgiojoso Cristina, Asie Mineure et Syrie souvenirs de voyages, Michel Levy Freres, Paris, 1858.

[2]Belgiojoso Cristina, Oriental Harems and Scenery, Carleton Publisher, New York, 1862.

[3] La vita intima e la vita nomade in Oriente. Facchi, Milano, 1921. La vita intima e la vita nomade in oriente, Sozogno, Milano, 1928. Vita intima e vita nomade in oriente, Como, Ibis, 1993 e 2004.

[4]Cristina Belgioioso, Ricordi dell’esilio, a cura di L. Sevegnini, Roma, Ed. Paoline, pag. 174-175

[5]   Per uno studio approfondito di Cristina Trivulzio di Belgioioso come giornalista  vedere: La prima donna d’Italia, Franco Angeli Milano, 2010.

[6] Cfr. La prima donna d’Italia. Cristina Trivulzio di Belgioioso tra politica e giornalismo. Franco Angeli, Milano, 2010.

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