teatro

Truman Capote contro il mito dei Kennedy nello spettacolo in scena al Niccolini di Firenze

Truman Capote questa cosa chiamata amore su testo inedito di Massimo Sgorbani e interpretato da un ottimo Gianluca Ferrato

di Domenico Del Nero

Truman Capote contro il mito dei Kennedy nello spettacolo in scena al Niccolini di Firenze

Ph Neri Oddo

“Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l’autoflagellazione” Parola di Truman Capote, evocato in questi giorni a Firenze sul palcoscenico di un bellissimo teatro Niccolini, rimesso a nuovo davvero con fedeltà e buon gusto. Ecco, il buon gusto forse non è proprio un ingrediente di base dello spettacolo in scena in questi giorni, Truman Capote questa cosa chiamata amore, su testo inedito di Massimo Sgorbani tratto da uno dei più importanti scrittori americani del secolo scorso e incentrato sulla sua figura. Certo, con un personaggio di questo genere non è facile mantenersi nei parametri abituali del bon ton e delle buone maniere; ma se anche a teatro un po’  di sano “maledettismo” non guasta affatto e qualche espressione “colorita” dai tempi del grande Aristofane non è certo una novità, si poteva forse evitare di cadere in certi eccessi, come l’insistere un po’ troppo su pratiche sessuali orali e dintorni; il tutto fatto forse senza morbosità, ma comunque a parer nostro andando in alcuni momenti decisamente sopra le righe.  Chi è di stomaco delicato è bene ne tenga conto.

 Sarebbe d’altra parte ingeneroso e miope limitarsi agli aspetti discutibili di uno spettacolo che ha anche non pochi punti di forza: in primis, la recitazione straordinaria di Gianluca Ferrato, che tiene perfettamente la scena da solo per circa un’ora e mezzo e dà vita un personaggio ora crudele e irritante, ora sarcastico fustigatore del perbenismo made in Usa, ora poetico e sentimentale, prigioniero di una solitudine senza uscita ma anche capace di slanci e di sentimenti umanissimi. Una recitazione perfettamente calibrata anche nel tono di voce, nella mimica, nella gestualità: si vede che l’attore si è calato alla perfezione nel suo personaggio  cerca di farlo rivivere in tutti i suoi molteplici e spesso contradditori aspetti: tutte cose che il pubblico ha gradito e apprezzato.

Lo spettacolo è un lungo colloquio che lo scrittore sembra rivolgere a se stesso, anche se alla fine si comprende che c’è in realtà un interlocutore, anzi una interlocutrice che però non appare mai in scena.  Si parte dalle delusioni e dai fallimenti amorosi dello scrittore, insistendo forse sin troppo sulla sua omosessualità: nessun dubbio che ai tempi dello scrittore essere omosessuali fosse un problema e di questo anche Truman pagò il tributo in termini di diffidenza e discriminazione, ma  oggi finisce con l’essere un tema sin troppo abusato e forse, paradossalmente, un pilastro del “politically correct”. Se non altro però l’argomento è trattato anche con una certa ironia e senza “santificazioni”, ma mettendo se mai in risalto la sovrana ipocrisia di chi si scandalizzava per questo accettando tranquillamente poi ben altro.

Lo spettacolo è infatti un vero e proprio processo al “mito americano” del secondo dopoguerra. Truman infatti inserisce gli eventi della sua vita nel contesto della storia che va dagli anni ’40 sino al 1984: gli anni cinquanta, i primi successi dello scrittore, la grande affermazione con A sangue freddo  del 1965, resoconto di uno spietato quadruplice omicidio ad opera di due giovani sbandati, che Capote ricostruì minuziosamente in sei anni di lavoro, mettendo anche in luce lo sfondo sociale in cui il crimine era avvenuto. Sul palcoscenico Capote–Ferrato parla del suo legame con uno dei due assassini, con cui si sentiva straordinariamente in sintonia del via della disperata solitudine che aveva scoperto in lui.

Ma la  carriera dello scrittore si fonda sul filo degli eventi, storici e mondani, di quel periodo: e alla fine del “monologo” si scopre  che in realtà Truman è appena morto e sta parlando nientemeno che con Marylin Monroe, che è venuta ad accoglierlo in un aldilà che “per fortuna non è il paradiso” e con la quale è stato legato da tenera amicizia. Proprio la figura della celebre sfortunata attrice serve a Truman per demolire il mito dei Kennedy, impietosamente portati in scena con foto che li ritraggono sul tavolo dell’obitorio; mentre il ricordo del romanzo incompiuto Preghiere esaudite,  con cui lo scrittore mise impietosamente a nudo gli scheletri dell’armadio dei vip del suo tempo, ricorda all’autore il prezzo terribile pagato per la sua sincerità: finché parlava dei suoi vizi era amato e coccolato, ma quando ha parlato di quelli altrui è bruscamente calato il sipario.

E’ un processo senza appello al mito e al sogno americano, che non risparmia critiche più che condivisibili al divismo e al bisogno di identificarsi in qualcuno, che a volte spinge addirittura all’omicidio del proprio “modello”, come nel caso di John Lennon. Più che apprezzabile la regia di Emanuele Gamba: si parte con un gioco di luci in bianco e nero (omaggio forse agli anni ’40) in un ambiente vagamente art- decò che si mantiene per tutto lo spettacolo, ma con l’intervento di fotografie, sprazzi di luci, filmati onirici, musiche di scena.

Repliche sino a domenica,  giorni feriali ore 21, festivo 16,45.

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