Editoriale

Buscaroli, Magli, Eco, quando i morti non sono uguali

Il circo mediatico ha riservato trattamenti diversi ai tre intellettuali scomparsi nel giro di pochi giorni e non per differenze di valore, ma di... parte

Gianfranco de Turris

di Gianfranco de Turris

febbraio  2016 nell’arco di appena una settimana sono scomparse morti tre personalità significative, per motivi molto diversi, della cultura italiana: Piero Buscaroli (15 febbraio, a 85 anni), Umberto Eco (19 febbraio, a 84 anni), Ida Magli (21 febbraio, a 90 anni).Una coincidenza simbolica in quanto è stata una ulteriore occasione per dimostrare come l’intellettualità e il giornalismo  italiani, peraltro non di molto diversi, se non in peggio, da quelli dell’Occidente europeo e americano, siano caduti in un abisso di faziosità, conformismo e “odiologia” da cui difficilmente si solleveranno se non metteranno da parte l’unico parametro su cui riescono a giudicare, quello esclusivamente ideologico, cancellando tutti gli altri.

Sicché non ci si deve meravigliare più di tanto, anche se l’indignazione rimane, per la disparità di trattamento cui sono stati oggetto i tre scomparsi da parte dei mass media. Di Umberto Eco se ne è parlato talmente tanto e con toni talmente elogiativi, e senza un minimo dubbio, sui giornali e in televisione da superare un papa o un presidente della repubblica: il Corriere della Sera, ad esempio, gli ha dedicato tre o quattro pagine quotidiane dal giorno della morte al giorno dei “funerali laici”, e non era nemmeno un suo collaboratore, tutti i telegiornali hanno fatto altrettanto. A Piero Buscaroli, uomo sempre a destra, e a Ida Magli, donna di sinistra poi passata negli ultimi decenni su posizioni conservatrici e identitarie, anti Unione Europea, anti euro e anti islam, quindi una traditrice, al massimo dei ricordi generici in cui sono state messe in evidenza critica  le loro posizioni “politicamente scorrette”. L’uno osannato, gli altri due trattati con sufficienza e velato disprezzo e subito dimenticati, e non certo per motivi “culturali” perché la loro importanza, su piani diversi da quelli di Eco, è acclarata e nota.

Umberto Eco è stato, indipendentemente da ogni giudizio ideologico, una personalità di spicco nella cultura italiana e per il suo presenzialismo in ogni dove e per la sua poliedricità: la sua importanza per l’analisi e l’apprezzamento della cultura di massa (fumetti, canzoni, letteratura d’appendice, fantascienza, supereroi ecc.) è stata di grande importanza sin da Apocalittici e integrati (Bompiani, 1964) che ha aperto una strada non tanto interpretativa quanto d’interesse e rivalutazione di generi pochissimo considerati in quanto tali(i suoi giudizi erano infatti di solito  “politici” e spesso discriminatori: si pensi alla sua introduzione apologetica al volume I fumetti di Mao (Laterza, 1971). Il che - scusate la citazione - sin dagli anni Sessanta-Settanta non ho mancato di segnalare inutilmente alla “destra” che invece era propensa a svalutare e non interessarsi della cultura popolare che invece poteva essere, anzi era, fondamentale da interpretare e fare propria. Dei suoi romanzi hanno in realtà avuto vero successo per la loro originalità intrigante – un eco si potrebbe dire con una battuta - solo i primi due, Il nome della rosa (Bompiani, 1980) e Il pendolo di Foucault (Bompiani,1988) che riprendendo tematiche “popolari” volevano essere però una sottile e irridente critica illuminista di condanna a certe culture tradizionali ed esoteriche e che invece, come notò subito Alfredo Cattabiani, contribuirono al contrario a popolarizzarle e rivalutarle agli occhi di un pubblico che in certi casi le ignorava affascinandolo. E forse era più degno del Nobel che non un guitto come Dario Fo, che non si capisce ancora come abbia fatto a ottenerlo.

Questo non toglie, per un suo profilo completo, che si sarebbero dovuti mettere in risalto anche i suoi lati ideologici più oscuri e negativi: la firma del manifesto contro il commissario Calabresi “torneatore” e che ne preparò la condanna a morte, l’apologia del maoismo cui si è accennato, il voler fra credere che le Brigate Rosse fossero una fandonia inventata dalla polizia analizzando un loro comunicato dal punto di vista semiologico su L’Espresso attribuendo lo scritto ad un “brigadiere” (un capolavoro in negativo nel suo genere). Da questo punto di vista durante la contestazione e gli “anni di piombo” fu un vero “cattivo  maestro”, ma nessuno ha osato ricordarlo e sono stati scritti solo osanna. In seguito, dagli anni Novanta è da segnalare il suo disprezzo, il suo “razzismo etico” come lo definì Marcello Veneziani, nei confronti di chi non votava a sinistra ma per il centrodestra, gentaglia incolta abbindolata dalle televisioni, popolaccio altro che gli intellettuali! E quella invenzione della categoria dell’ “Ur-fascismo” che ghettizzava tutto ciò che anche non fascista al fascismo si voleva apparentare, di ieri e di domani, e quindi condannare senza discuterci su. Nessuno, ripetiamo, sulla stampa borghese e di sinistra lo ha messo in evidenza, neanche con accenni indiretti. Solo peana.

Ida Magli è stata a suo tempo una “femminista storica” e solo questo è stato messo in risalto perché faceva comodo, tacendo in pratica del suo lavoro di antropologa che man mano è andato controcorrente quando si è resa conto in che direzione ci si stava muovendo. Si sono ricordate le sue prese di posizione sino agli anni Ottanta, poi in pratica il silenzio o la condanna più o meno  esplicita. Che la UE sarebbe stata una tragica trappola, che l’abolizione della lira alla lunga un vero dramma, che il cedimento buonista di fronte all’Islam un suicidio, che l’immigrazione incontrollata una follia antinazionale, così come scriveva nei suoi articoli per Il Giornale o nei libri, alcuni dei quali firmati con Giordano Bruno Guerri, come non fossero mai esistiti: da Per una rivoluzione italiana (Baldini e Castoldi, 1996) a Contro l’Europa (Bompiani, 1997) agli ultimissimi La dittatura europea (Rizzoli, 2010) Oltre l’Occidente (Rizzoli, 2012) e Difendere l’Italia (Rizzoli, 2013). Tutto questo per i nostri giornalistucoli non era menzionabile, meglio eclissarlo e ricordare solo la Magli del Sessantotto, di oltre mezzo secolo fa, ritenendo le sue ultime posizioni come stravaganze, se non peggio,  di una vecchia antropologa.

Piero Buscaroli era un giornalista di lungo corso, collaboratore de Il Borghese di Leo Longanesi e Mario Tedeschi, ultimo superstite di quelle grandi redazioni, versato nella ricerca storica revisionista ante litteram, commentatore di politica interna, estera e di costume, di cultura impressionante, di straordinario stile e di polemica acutissima, e soprattutto era uno storico della musica di enorme valore con all’attivo, non solo l’insegnamento in vari conservatori, ma autore di saggi monumentali su Mozart, Bach, Beethoven che hanno lasciato una traccia profondissima per le sue interpretazioni innovative e controcorrente. Nonostante ciò è stato emarginato e dimenticato. Brutto carattere sena dubbio, ma non è questo che ha pesato, quanto il suo essere non di destra ma di estrema destra, di essere stato un “anti-italiano” per aver condannato i vizi nazionali non solo della classe dirigente ma proprio dell’italiano in quanto tale.

Insomma, non tutti i morti sono uguali, ci sono morti di sere A e morti di serie Z, quelli da ricordare e quelli da ignorare e poi dimenticare, quelli da elevare agli altari e quelli da respingere nelle fogne. Lo si è sempre detto nei confronti dei morti della guerra civile italiana, dei partigiani e dei repubblicani, degli antifascisti e dei fascisti, ma ora lo si deve dire anche per la cultura, dato che la guerra civile dopo 70 anni si è spostata su questo piano e continua senza che nessuno ne provi vergogna, neanche coloro che da bravi liberali si vantano di essere equidistanti e di non soccombere alla faziosità. In genere è solo fumo negli occhi, senza bisogno di far noni e cognomi di questi illustri personaggi che scrivono su illustri testate.

Piero Buscaroli, lo si è detto, era un brutto, bruttissimo carattere, ma per fortuna con me non ha mai avuto occasione di manifestarlo, forse anche per le non troppe frequentazioni dirette, ma nonostante i suoi modi bruschi e spicci ricordo con soddisfazione di essere riuscito a intervistarlo per il Giornale Radio Rai, quando ero alla redazione cultura, per il suo Beethoven nel 2004 nonostante fosse più che scettico sui risultati e inizialmente si fosse rifiutato di dire alcunché, cioè di dire cose significative e razionali in appena 70 secondi, il tempo di una intervista radiofonica. Alla fine ci riuscii e il servizio andò in onda. Oggi non so proprio se con una personalità come lui lo si sii potrebbe ancora fare. Si stava meglio quando (secondo molti) si stava peggio…

Non potrò mai dimenticate che a lui devo se soni diventato un giornalista e intrapresa questa carriera. Alberto Giovannini non mi volle assumere al Giornale d’Italia di cui era diventato direttore dopo esserlo stato al Roma, in quanto, mi disse,  non ero portato a fare quel mestiere ma il lavoro editoriale. Forse aveva anche ragione, ma io dovevo pur intraprendere una professione per vivere, almeno quella più adatta alle mie predisposizioni. Mi assunse invece proprio Buscaroli, che a lui era succeduto nella direzione del quotidiano di Achille Lauro, nel 1974 quando, come ho già raccontato altre volte, andai a Napoli per chiedere  di curare la pagina dei libri di cui era responsabile Claudio Quarantotto che era passato a dirigerla appunto per Il Giornale d’Italia. E lui mi disse incredibilmente: macché pagina, ti assumo. E entrai come praticante alla redazione di Roma, nella Sala Stampa di Piazza San Silvestro, redazione diretta da  Riccardo Giannini, e in cui lavorava come notista politico Enzo Erra, che divenne il mio capo  diretto e da cui imparai moltissimo (acutissimo analista, ma altro carattere burbero e intransigente et pour cause…).Ebbi da lui anche la stupefacente possibilità di poter scrivere quasi subito un articolo di fondo, il primo e l’ultimo della mia carriera (se non sbaglio era sulla interpretazione della contestazione): trentenne appena assunto feci imbufalire tutti i colleghi di più lungo corso... Quando il giornale passò sotto il controllo democristiano deciso dal figlio di Lauro Gioacchino, Buscaroli lasciò nel 1977 la direzione che passò a Piero Zullino, inviato speciale di Epoca. Io rimasi sino al 1981 quando il quotidiano chiuse dopo aver vivacchiato come cooperativa di giornalisti. Nessuno dei soloni farisaici della stampa “democratica, laica e antifascista” versò una lacrima per la scomparsa di una storica testata, ma sempre considerata “di destra”, e per i reattori in disoccupazione, tanto per dire che  in oltre trent’anni le cose non sono per nulla cambiate. Da allora iniziò una parte diversa della mia vita.

 Di Buscaroli si raccontavano molti aneddoti: di quando andò nel dopoguerra a fare campagna elettorale in Sicilia per il MSI insieme al barone Enrico de Boccard (altro personaggio indimenticabile) e se ne andava in giro, dicevano, accendendo le sigarette con le banconote in sfregio al popolo… O di quando durante la “guerra dei sei giorni”, sempre con de Boccard, in un albergo suonò al piano, di fronte ai soldati  israeliani, Lilì Marlene… Prima della mia assunzione, quando curavo per Il Conciliatore le interviste mensili sulla cultura di destra (ora riunite in I non conformisti degli anni Settanta, introduzione di Sergio Romano, Ares, 2003) inutilmente cercai di farlo parlare sull’argomento: mi ricevette in un albergo romano nella sua stanza e in vestaglia mi disse di no, ma per dirmelo mi tenne una concione lunghissima affermando che, già allora, la cultura di destra non esisteva… E poi, forse in occasione della intervista radiofonica che invece riuscii a estorcergli decenni dopo, mi raccontò che con tutte le querele che aveva vinto nei confronti di coloro i quali lo definivano “nazista” si era comprato un aereo da turismo! Lo battezzò, se ricordo bene, proprio “Querela”.

Buscaroli era così e la sua è stata per tutta la vita la guerra contro gli italiani ignoranti, vili e cialtroni che si vergognavano della loro storia. Era però come voler raddrizzare le gambe ai cani (per usare il titolo della rubrica che Henry Furst aveva su Il Borghese), cioè una impresa impossibile, ma non per questo meno meritoria: è rimasta famoso il fatto, arrivato anche sui giornali a lui ostili, che quando era direttore del Roma aveva imposto il vocabolario italiano sulla scrivania di ogni redattore. Venne considerato quasi fosse un’offesa alla dignità dei redattori, mentre era opera meritoria visto come so è ridotto il giornalismo italiano. Libero, facendo eco ad una famosa canzone di  De André, ha intitolato l’articolo in suo ricordo La guerra di Piero. Giustissimo, perché le guerre giuste vanno combattute anche se sono destinate alla sconfitta sul campo, ma non nei valori che sostengono. Purtroppo Buscaroli era un individualista all’estremo, il che, insieme al pessimo carattere che aveva e che lo faceva litigare senza un vero perché anche con gli amici, gli ha impedito  di fare scuola, di crearsi non dico discepoli o allievi, ma giovani che si ispirassero a lui per cultura, intransigenza, onestà intellettuale e, perché no?, modo di scrivere. La destra è spesso fatta d queste personalità uniche che non “formano”, sicché la discendenza culturale è difficile, al massimo indiretta. Questa la nostra caratteristica ma anche il nostro dramma.

Piaciuto questo Articolo? Condividilo...

    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da ghorio il 02/04/2016 16:39:42

    Ho letto e apprezzato l'editoriale di Gianfranco de Turris. Come al solito il mondo dell'informazione dimostra di essere di parte. La bravura di uno scrittore, di un giornalista , di un filosofo, etc non si misura dalla sua collocazione politica come avviene in Italia. Le considerazioni di de Turris vari voluto farle io con qualche lettera al mondo dell'informazione, cosiddetta di opinione. Infatti senza nulla togliere ad Umberto Eco il silenzio o quasi, almeno nei cosiddetti giornaloni, per Piero Buscaroli e Ida Magli mi è sembrato ingeneroso. Personalmente da ragazzino seguivo Buscaroli su"Il Borghese" e il suo modo di scrivere l'ho sempre ammirato continuando a leggerlo poi su "Il Roma", durante le ferie estive, visto che questo quotidiano non arrivava in Lombardia dove abito da decenni, e poi su"Il Giornale" per i suoi scritti non solo di musica, ma di costume, di storia, oltre ad averlo ammirato per le sue corrispondenze dal Vietnam e per i suoi scritti di politica estera. Tra l'altro colgo l'occasione per legare a questo silenzio anche la scomparsa dell'economista Sergio Ricossa. Un grande economista e polemista che meriterebbe grandi onori e ricordi perenni per quello che ha scritto e per i suoi libri che consentono capire veramente l'economia. De Turris menziona anche Pietro Zullino: ebbene debbo dire che questo giornalista, direttore tra l'altro anche de "Il Settimanale" rusconiano e della rivista "Il Carabiniere" alla sua morte avrebbe meritato molti più spazi di quanto si sono registrati. Ma è sempre così, visto che a sinistra e dintorni si celebrano e si ricordano i cosiddetti intellettuali di area ignorando o quasi quello che succede nell'area di centrodestra.

Inserisci un Commento

Nickname (richiesto)
Email (non pubblicata, richiesta) *
Website (non pubblicato, facoltativo)
Capc

inserisci il codice

Inserendo il commento dichiaro di aver letto l'informativa privacy di questo sito ed averne accettate le condizioni.