Editoriale

Il calcio e la fine del tranfert identitario

Non esistono più (a parte Totti) i calciatori bandiera che non lasciavano la propria squadra neppure per compagni più ricche o allettanti

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

er una volta, mi prendo una pausa e trascuro le abituali considerazioni sulla politica italiana, sui mutamenti della sensibilità collettiva, sulle ormai ricorrenti stragi che scandiscono le nostre cronache; per un volta, cercando di non invadere il campo altrui, mi inoltrerò in qualche riflessione sul mondo del calcio, evitando i dettagli tecnici e cercando di richiamarne gli aspetti simbolici e la portata metapolitica, finanziaria, mediatica, in definitiva: culturale.

Prendo spunto dal trasferimento di Gonzalo Higuain dal Napoli alla Juventus, premettendo, per dovere di sincerità nei confronti di chi mi legge, che sono da sempre un sostenitore della squadra partenopea. Ho detto “da sempre”, per sottolineare che la cosiddetta “fede calcistica” costituisce un dato, ormai residuale ma ancora forte, nell’universo delle appartenenze irreversibili: si possono cambiare – e si cambiano! – moglie o partito politico o giro di amicizie; non si cambiano soltanto la mamma e la squadra del cuore.

E’ vero anche che in questo gioco - da tempo non più solo tale – il criterio e l’origine delle appartenenze oscillano da quello territoriale, paragonabile allo jus soli, a quello della ereditarietà (una sorta di jus sanguinis…) alla scelta casuale, dettata dalla mera convenienza “sportiva” (si tifa, quando comincia l’età di ragione, per la squadra vincente  in quel momento). Bene: da quando si è intensificato l’afflusso di giocatori stranieri, fin quasi a soverchiare le presenze italiane (una prefigurazione di quanto sta avvenendo con le grandi migrazioni?) e da quando la Borsa, la Pubblicità, i Procuratori, soprattutto la Televisione sono entrati prepotentemente sui rettangoli verdi, tutte le regole – non i regolamenti – del gioco, sono state stravolte, e la stessa appartenenza è rimasta appannaggio orgoglioso del solo popolo di tifosi.

Se il calcio è diventato, specie da noi, la festa dei campanili municipali, e ora si sta stemperando quasi dovunque questo aspetto, tutti sanno che il caso di Napoli, in termini di riconoscimento identitario, resiste e rappresenta una delle poche eccezioni; forse soltanto l’Atletico di Bilbao, che addirittura declina in chiave etnica tale appartenenza, escludendo dal suo organico i calciatori che non siano baschi, si colloca un gradino più su. Tuttavia, forse solo a Napoli il calcio è per tanti quasi ragione di vita, transfert liberatorio sul singolo tifoso di vittorie altrui, occasione di riscatto sociale, quando non politico (si pensi al movimento sorto intorno al “culto” di Maradona, al Te Diegum, ai richiami colti a Masaniello e ai Borboni). Un mio amico – di quelli veri, non virtuali – ha postato su Facebook, a proposito del “tradimento” di Higuain, questa frase: “E ora, che ne sarà dei tanti Gonzalo Esposito?”; perché a Napoli si arriva ad imporre ai propri figli il nome dell’eroe calcistico di turno. Come dire: un marchio per la vita…

I calciatori-bandiera, si dice, non ci sono più; è tramontata l’epoca dei Riva, dei Bulgarelli, degli Juliano, capaci di dire no alle grandi società del Nord, e di rinunciare a cospicui guadagni, pur di restare sotto le bandiere della squadra d’origine. L’ultimo esponente di questa generazione, da additare all’ammirazione, alla riconoscenza, agli affetti anche di chi, come me, non è romanista, è Francesco Totti. In un saggio argomentato ma discutibile, Giulio Giorello sostiene che il tradimento non è una categoria utilizzabile in politica; possiamo discutere se, al di là dell’odierno risentimento popolare, esso trovi cittadinanza nel calcio e nel tifo. Gli storici della materia citeranno altri casi di trasferimenti/tradimenti, come quello dello svedese Selmosson da una squadra all’altra della Capitale, o quelli, più recenti, di Altafini “core ‘ngrato” – sempre dal Napoli alla Juve – e di Ibrahimovic, fra le due società meneghine; altri ancora, troveranno assonanze con la vocazione degli antichi capitani di ventura, pronti a mettere la propria spada al servizio di questo o quel signore rinascimentale; ma oggi il fenomeno, di cui Higuain rappresenta il caso estremo, investe la natura stessa e, chissà, il futuro del calcio.

Il fatto è che questa disciplina, oltre che dei proventi televisivi, vive dell’entusiasmo dei sostenitori, che vanno allo stadio, si abbonano alle pay tv, saccheggiano gli store con i gadget della squadra e, ahimé, dei campioni del cuore (non ho fatto eccezione: ma ora che fare della maglia azzurra con la scritta “Higuain”,  regalata al mio nipotino?). E vive dell’incertezza dei campionati, e della possibilità – perfino per un Leicester, un Verona e, alla fine, un Napoli – di arrivare alla Vittoria, autentica divinità sportiva. Cosa succederà se e quando verranno meno questo entusiasmo, queste possibilità?

Molti commentatori hanno sottolineato le dimensioni economiche e le ricadute dell’affare Higuain, finito proprio tra le file della maggiore – e più odiata, sportivamente – avversaria del Napoli, quella Juventus che a tutte le altre tifoserie d’Italia appare come la personificazione dell’arroganza, della soverchiante superiorità, della sicumera ostentata dai ricchi e potenti. Razza padrona, titolava, decenni orsono, Eugenio scalfari. Qualcuno ha sottolineato la convenienza dell’affare per il Napoli: ad esempio il “Napolista”, testata colta del tifo partenopeo, ha scritto che altrove il presidente De Laurentiis sarebbe stato considerato  l’eroe di Wall Street; si dimentica però che una squadra di calcio non si esaurisce nel bilancio della società proprietaria e che il risultato di una transazione economica, specie di questa portata, si valuta in funzione dei futuri esiti sportivi; soprattutto, che si deve rendere conto non solo ad azionisti e revisori dei conti, ma a un intero popolo.

Dicevamo dell’entusiasmo: come insegnava il conte di Shaftesbury a metà Settecento, questa pericolosa attitudine induce in errore se stessi e gli altri, e di questo devono essersi – dobbiamo esserci – accorti i tifosi napoletani, dopo i canti con i loro beniamini – Higuain in testa - e le esultanze sotto la curva, criticate da commentatori invidiosi e, come si dice in linguaggio volgare, con la puzza al naso. Però se lo smorzate, se lo mortificate, l’entusiasmo tenderà ad alimentare sempre meno questo sport, ridotto sempre più a mercato vantaggioso per i pochi e a frustrazione e delusione per i molti. Il mercato: ancora una volta ci troviamo schiacciati da questo moloch onnipervadente…

Olivier Roy ha scritto che l’islamismo ha fornito pretesti pratici e mondo ideale al nichilismo che serpeggia nelle nostre società; non vorremmo che la conferma e l’individuazione della Juventus come “nemico principale” nel nostro campionato, fornisse, contro quei comportamenti da “padrona”, pretesti e motivazioni ideologiche alla violenza dei troppi ultrà che affliggono il nostro calcio. A volte, anche i ricchi devono saper indossare l’abito dell’umiltà e rischiare, ogni tanto, di dover rinunciare alla Vittoria.

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da luckyboy il 25/07/2016 14:53:36

    Un articolo di una bellezza estrema, he dimostra come l'autore sia un grande scrittore, prendendo il più popolare degli argomenti e trasformandolo in occasione di riflessione dotta, sociologica e intellettuale!!

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