L'altra metà del genio

Johanna Bonger, la donna che fece conoscere l'opera di Van Gogh

Era la moglie dell'amatissimo fratello Theo, per amore del defunto marito si dedicò alla diffusione delle opere del allora sconosciuto cognato

di Francesca Allegri

Johanna Bonger, la donna che fece conoscere l'opera di Van Gogh

Di molte donne si può dire che furono benefattrici dell’umanità; alcune si sono dedicate alla cura di infermi e deboli, altre hanno denunciato condizioni di vita inumane, altre ancora geni della medicina o di altre scienze, ma solo una  lo è stata non per se stessa, ma per quello che ha saputo donare a tutti noi: la grande bellezza,  una bellezza che altrimenti avrebbe rischiato di andare perduta per sempre; il suo nome, ormai quasi dimenticato se non in patria e fra gli specialisti, è Johanna Bonger, da coniugata Van Gogh. Non fu né compagna, né sorella, né tantomeno moglie di Vincent, ne fu solamente la cognata, la moglie dell’amatissimo fratello Theo. 

Ne abbiamo il ritratto del 1905 eseguito dal secondo marito, il pittore olandese Johan  Cohen Gosschalk: un volto severo, dalla fronte alta, bella, ma non appariscente, dà soprattutto un’idea di grande forza e determinatezza, forse le sue due caratteristiche principali. Proveniva dalla provincia olandese, da una famiglia borghese amante delle arti e della musica, e aveva buoni, anche se non eccezionali, studi alle spalle. Dopo essersi diplomata in inglese era avviata ad una sicura e serena carriera di insegnante, professione che esercitò per qualche tempo, come si usava all’epoca, in istituti femminili; poi un  impiego, come bibliotecaria, sempre dovuto alle sue competenze linguistiche, al British Museum.

Una conoscenza dell’arte non da specialista, certamente, ma solo quella di una ragazza di buona media cultura, niente di più.  Nel 1888 incontra per la prima volta Theo Van Gogh allora impiegato presso la galleria d’arte Goupil a Parigi; glielo presenta il fratello Adrien del quale era molto amico. A Theo piace, lei sembra rimanere indifferente e rifiuta persino una proposta di matrimonio. Qualche tempo dopo i due di nuovo si incontrano e questa volta anche Johanna è presa da questo giovane esperto d’arte, e si sposano. Sarà un matrimonio felice per i rapporti sinceri, affettuosi e solidali fra i due, ma non mancheranno ombre gravissime. Theo è un uomo interessante, con una professione interessante; fa il mercante d’arte e si dedica soprattutto alla pittura contemporanea. Il suo nome rimarrà legato sempre e comunque a quello del fratello Vincent, ma spesso si dimentica che molta della pittura della seconda metà dell’Ottocento francese ha avuto fama e risonanza proprio grazie a Theo. Basterebbero i nomi di Pizarro, di Toulouse-Lautrec, di Gauguin per comprendere l’intelligenza, la sensibilità e la cultura di questo giovane uomo; del resto l’amore per l’arte era una costante di famiglia e ben tre zii erano, appunto, mercanti d’arte; uno di questi aveva indirizzato e raccomandato prima Vincent e poi Theo alla prestigiosa casa Goupil.

Theo e Johanna, dunque, si sposano e vivono a Parigi, qui Johanna conosce fuggevolmente Vincent che rimarrà ospite da loro per un breve periodo.  La sua vita è stimolante, accanto ad un uomo che ama, che le fa conoscere artisti di grande avvenire e presto anche con un figlio. Ma all’interno della famiglia ci sono, però, anche momenti meno luminosi, in questo periodo, infatti è proprio Theo che sopperisce alle difficoltà finanziarie del fratello, in pratica lo mantiene e ne segue costantemente le vicende: era stato Theo, per esempio,  a suggerire l’esperimento, poi miseramente fallito,  della coabitazione con Gauguin. Non è certo facile prendersi cura di una persona così angosciata e instabile come Vincent, ma Johanna con grande intelligenza e sensibilità, raramente riscontrabili in una giovane moglie, mai si frappone né si intromette nel rapporto fra i due fratelli e, nonostante le loro finanze non siano certamente  cospicue, non si oppone neppure alle elargizioni di danaro.

Poi, poco dopo il matrimonio, nasce un figlio al quale, non a caso viene imposto il nome dello zio. Pare che il pittore nutrisse, allora, sentimenti ambivalenti, da una parte partecipazione e gioia per la nascita di un nuovo Van Gogh che avrebbe portato il suo nome, egli stesso, invece, certo con fatica, stava da sempre portando quello di un fratello morto prima della sua nascita; ma d’altra parte anche molta preoccupazione: avrebbe potuto il fratello continuare a provvedere alle sue necessità economiche con una famiglia in crescita? Comunque Johanna in questo legame così stretto, e forse per un’altra donna, soffocante non si intromise mai. Non si ha notizia che si sia mai opposta alle elargizioni di Theo; forse comprendeva, come spesso capita alle donne sensibili, che qualunque protesta sarebbe stata inutile di fronte ad un legame così inscindibile. Poi la tragedia, forse da tempo prevedibile, anche se non certo evitabile: Vincent si spara e muore, dopo ore di agonia, nelle braccia del fratello più giovane. Da qui anche la personale tragedia di Johanna: dopo la morte di Vincent, Teo non si riprende.

Era sicuramente comprensibile l’abbattimento e lo scoramento dopo un tale lutto, ma Theo si mette a letto, non reagisce, ha gesti inconsulti, nulla più sembra importargli, nemmeno il figlio. Johanna resiste per un po’, poi si arrende e fa ricoverare il marito in una clinica per alienati. La diagnosi è terribile: si tratta di demenza paralitica, una forma, allora incurabile, di demenza, con prognosi assolutamente negativa, che si manifesta spesso nei malati di sifilide all’ultimo stadio. Infatti Theo, dopo pochi mesi, muore giovanissimo ad appena 31 anni. La vita di Johanna ne è ovviamente sconvolta, si trova sola in una città, Parigi, che non è la sua, con un figlio piccolo e pochi mezzi. Fa allora la cosa giusta, torna in Olanda e decide di mettersi in affari, compra una villetta e comincia ad affittare camere. Fin qui niente di particolare, Johanna agisce come una qualunque intelligente giovane vedova della piccola borghesia dell’epoca; deve pensare al figlio e a se stessa, e lo fa.

Anche se Johanna era ben lontana da sentirsi un piccolo borghese, fu, infatti, fra le fondatrici del movimento socialista delle donne. Dall’abitazione di Parigi sgombera nella casa di Bussum, a pochi chilometri da Amsterdam, non solo mobili e arredi,  ma anche la fittissima collezione di quadri che Vincent ha lasciato al fratello e Theo a lei; questa donna non particolarmente esperta di arte  comprende quello che molti, colti preparati, e qualche volta anche illuminati, critici dell’epoca non avevano compreso: Vincent aveva  venduto un solo quadro durante la vita. Johanna invece vive due vite contemporaneamente, la vita di un solida vedova, che lavora e mantiene se stessa e il figlio, e la sensibile interprete dell’arte del cognato. Ma non è sola, se all’inizio gli appoggi esterni sono ben pochi, e solo da parte di quelli che erano stati gli amici dei due fratelli, Johanna ha con sé, fortunatamente salvaguardata, la fitta, intensa, ispirata corrispondenza fra i due. Sono soprattutto lettere di Vincent che Theo ha gelosamente conservate, meno numerose le risposte; ma diventano come una bussola che la guida nel comprendere e poi valorizzare l’opera del cognato. Intelligentemente capisce che non le deve pubblicare subito, lo farà qualche anno dopo nel 1914, perché non distolgano l’attenzione dall’opera pittorica e inizia a prendere contatti con galleristi e musei in patria e all’estero.

All’inizio è una battaglia estenuante, i quadri di Van Gogh non piacciono né al pubblico e neanche, spesso, ai critici; il fatto poi che li proponga una donna, e per di più una parente, non fa altro che aumentare la diffidenza. Non è un’intenditrice d’arte, era legata a queste opere da un affetto che può far velo, è una donna e per di più non ha beni di fortuna: la valorizzazione dell’opera del cognato, adesso in mano sua, può certo significare una buona fonte di reddito aggiuntivo. Sono queste le critiche e le resistenze che deve affrontare.  E Johanna le affronta con coraggio, rende la sua casa un’esposizione permanente  dei moltissimi quadri in suo possesso, quasi tutti di Vincent, ma anche di altri pittori importanti, quelli che Theo amava in particolare. Poi comincia a rivolgersi ai galleristi e, pur cercando di lasciare intatta la collezione, ogni tanto vende qualcosa, le necessità economiche glielo impongono: incorniciare le opere, farle viaggiare, affittare gallerie costa e Johanna deve adattarsi, ma la grande mole rimane comunque nelle sue mani.

Vi è poi un lavoro più silente: la lettura delle famose lettere. Johanna più volte dirà che vi ha messo mano per amore del figlio, questo secondo Vincent che non ha fatto in tempo ad avere ricordi del padre deve in qualche modo avvicinarsi a lui, sapere quali sono le sue origini, cosa e quanto significhino il nome e il cognome che porta. La vita successiva di Vincent Wilhelm Van Gogh, detto da tutti l’ingegnere perché questa fu la sua professione, dimostrerà che gli sforzi della madre non erano stati vani: da adulto, insieme a lei e poi dopo la morte di lei, diverrà il più fidato custode delle opere e delle memorie della famiglia e non rinuncerà mai al suo ruolo di curatore della fondazione e del museo che per sempre ad Amsterdam conservano le opere del grande zio; nel 1962 donerà, infatti, i quadri ereditati dalla madre alla Fondazione Van Gogh e, fino alla sua morte nel 1978, continuerà ad avere contatti con ammiratori e visitatori. Per intanto Johanna impiega anni a leggere, ordinare e catalogare questa imponente mole di corrispondenza che  servirà poi ai critici per orientarsi nella complessa personalità del grande artista. Al di fuori di questo interesse esclusivo la sua vita scorrerà tranquilla, senza più grandi avvenimenti e tragedie; più tardi, a tempo debito, il matrimonio con un altro pittore olandese di fama non oscura; questi la aiuterà nel suo costante impegno, nessun altro figlio, infine di nuovo vedova, continuerà a dedicarsi all’are del cognato e alla sua memoria. Nel suo lavoro di valorizzazione le fu a fianco anche il fratello Adrien che aveva maggiori disponibilità economiche, ma che non si interessò mai del lato artistico della questione.  Arduo, e forse inutile, sarebbe ricostruire tappa per tappa tutti i contatti che Johanna prese con il mondo dei critici e dei galleristi, fu opera di anni, un lavoro indefesso: mostre commemorative a Bruxelles, Parigi, Anversa  e partecipazioni a collettive a Colonia, New York e Berlino, solo per fare qualche esempio. Un percorso, il suo, faticoso, ma  sorretto da una grande fiducia in se stessa  unita ad una squisita sensibilità.

 E per comprendere completamente la sua chiarezza mentale e la sicurezza dei suoi intenti si leggano le sue stesse parole, quando da poco sola,  si accinse al compito della sua vita, ecco dal suo diario: Insieme al bambino, Theo mi ha lasciato in eredità un altro grande compito, l’opera di Vincent, fare in modo che sia conosciuta ed apprezzata il più possibile conservando tutti  i tesori che Theo e Vincent hanno custodito intatti per il bambino, questo, anche sarà il mio compito. A questo suo primo proposito si attenne sempre.

Vincent e Theo sono sepolti vicini, nel cimitero di  Auvers-sur-Oise; con un ultimo gesto gentile fu Johanna che chiese e piantò un rametto di edera del giardino  del dottor Gachet, amico e ultimo medico di Vincent, sulla loro sepoltura; e ora giacciono insieme sotto un intrico di foglie.

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